SIPPY: L’UNICA

L’avevo vista per la prima volta sulla copertina di una rivista sportiva e tanto per cominciare avevo iniziato a forarmi le orecchie come lei, che era la campionessa mondiale dei 200 stile libero. Mai avrei detto che le avrei nuotato accanto per otto mesi solo qualche anno più tardi; il suo nome WOODHEAD, che tradotto vuol dire “testa di legno”, era già un programma: in quanto a tenacia, perseveranza e resistenza al dolore non era seconda nessuno. Più bassa di me di statura, con un fisico compatto e proporzionato e tutto sommato poco appariscente, sembrava quasi un ‘atleta come le altre, almeno finché rimaneva fuori dall’acqua, ma una volta in vasca Sippy esprimeva il suo potenziale psicofisico con una serie deflagrante di reazioni a catena, motivo per cui aveva un allenatore tutto per se’. Scott era una sorta di personal swimming coach che la monitorava accudendola, in ogni fase dei massacranti allenamenti preparati solo per lei. A noi non restava che ammirarla, tenendoci a rispettosa distanza e riconoscendole il merito di saper soffrire in silenzio e di fare quasi tutto da sola; c’erano giorni in cui suo talento acquatico e la sua competitività brillavano ai nostri occhi di semplici primatiste italiane, agoniste “quasi per caso”, se paragonate agli standard di Sippy. Vederla in azione in palestra, ci faceva capire cosa volesse dire raggiungere il limite per andare oltre, senza nemmeno dire una parola; durante gli allenamenti solo le lacrime erano ammesse e tutti noi lo sapevamo. Ciò che ancora oggi me la fa apparire unica e speciale e l’umiltà agonistica che la caratterizzava, la sobria gentilezza me verso la squadra e il suo pacato entusiasmo nei confronti delle proprie performance mondiali, la sua attitudine silenziosa e sfuggente tanto da sfiorare la solitudine. Penso che se fossi riuscita a gareggiare al suo livello avrei voluto assomigliarle; è stata l’unica atleta statunitense che ho portato nel cuore, al mio ritorno dalla California.

(Monica Vallarin, ex atleta – esercizi di scrittura autonarrativa / Ottobre 2017)

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IL NUOTO COME CATALIZZATORE

(Scritto da Monica Vallarin a commento dell’intervista a Michele Garufi, pubblicata in TRIBUTE SPACE)

Ci sono reazioni che hanno bisogno di tempo per esprimere al meglio il loro potenziale, ci sono persone che possiedono potenzialità inesauribili e ci sono discipline sportive che, anche quando hai smesso di praticarle, continuano a lavorare per te. Il nuoto agonistico di Michele Garufi è stato proprio questo: un potente catalizzatore di reazioni connesse allo sviluppo personale e professionale di questo importante dorsista degli anni 70, ora affermato Imprenditore in ambito Farmaceutico. Nel suo narrarsi, troviamo il senso profondo dell’IMPEGNO agonistico: dalle SFIDE agli apprendimenti dall’esperienza, passando dalla DELUSIONE alla capacità di “andare oltre”, trasformando le difficoltà in nuove OPPORTUNITÀ’ di riuscita.

Quando Michele racconta i MOMENTI APICALI  del proprio percorso natatorio di “PROBABILE OLIMPICO”, ci rivela tutta l’intensità delle ASPETTATIVE che ruotano attorno al SOGNO olimpico, fino a rivelarci la pericolosità di quei momenti di SELEZIONE agonistica, in cui in pochi e brevissimi istanti ci si gioca l’impegno e la fatica di mesi , talvolta di anni ; attimi in cui, in una sorta di moviola emozionale, puoi vedere il tuo OBIETTIVO divergere vorticosamente da te, lasciandoti nel vuoto, attonito e quasi privo di prospettiva temporale .

Perché è così che ci si sente dopo aver MANCATO un grande obiettivo: prosciugati di energia, privi di direzione, quasi estranei a se stessi e soprattutto, spesso, non ci si perdona.

Michele però, nella sua vita post-agonistica, sembra aver definito un punto cruciale nella propria “AGENDA EMOTIVA”: riconnettersi con quello che aveva percepito come “l’errore” responsabile della mancata convocazione olimpica; ed stato grazie ad un forte senso di RESPONSABILITÀ (inteso nel suo significato etimologico di “essere abile-a-rispondere”), che Michele ha potuto “rilanciare” tutto se stesso, ancora una volta, nella propria dimensione professionale : con l’impegno, la tenacia e la competitività che lo caratterizzano. Lo ha fatto esponendosi in prima persona, assumendosene i rischi, in solitudine suo malgrado, da buon nuotatore abituato a fare i bilanci con se stesso prima ancora che con gli altri.

Ma come ben sanno i nuotatori che hanno fatto l’esperienza “da vicino”, il nuoto avvicina e l’acqua unisce, in quella magica comunione d’anime che resta integra e v

itale anche dopo l’evento critico dell’interruzione, la stessa che ha permesso a Michele di amare la propria famiglia, la società sportiva dei propri figli e gli amici ex-nuotatori, in una sorta di “affinità affettiva” capace di contenere tutte le sue peculiarità: quella di padre, di dirigente-imprenditore e quelle di uomo.

Sport e crescita esistenziale, in casi come questi, sono meravigliosamente inscindibili e le nuove mete raggiunte vanno ben oltre tutti gli obiettivi mancati.

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“INTERVISTA A MICHELE GARUFI, EX NUOTATORE AZZURRO”

“Michele, 10 anni di nuoto a livello agonistico, in cui hai vinto Titoli Italiani, fatto parte piu’ volte della Nazionale Assoluta, tante soddisfazioni … cosa ti hanno insegnato maggiormente? “

“Beh, soprattutto una cosa, che ti racconto con un … sogno.”

“Non mollare Mike, ancora una settimana, dai che ce la fai “. Mi svegliai di colpo, con la voce inconfondibile del mio Papà nelle orecchie, in una stanza dell’Hotel Perreyve a Parigi …Erano le 6 di mattina di un Venerdì di fine Ottobre del 1999. Mio Papà era morto in modo assurdo 9 anni prima lasciandomi sgomento quando seppi in modo postumo il perché’ fosse morto … Piansi , tanto, un po’per la rabbia che mi prese nel realizzare che fosse solo un sogno  e che il mio Papà non avrebbe potuto aiutarmi nel momento più difficile della mia vita professionale  , un po’per la stanchezza che avevo dopo due settimane di “road-show” in giro per il mondo per l’entrata in Borsa della Società che avevo creato con i miei due soci , e di cui ero Presidente,  che sarebbe abortita se non avessi deciso di  proseguire per un ‘altra settimana in una specie di “mission impossible” per cercare di ribaltare la sorte … Che c ‘entra col nuoto tutto ciò, mi chiederai? 

25 Luglio 1972, Campionati Assoluti di Torino, validi come Trials per le Olimpiadi di Monaco. Finale dei 100 dorso. In corsia 4 ci sono io, il favorito, il “Probabile Olimpico “- come ci definivano allora – un anno di allenamenti intensi e collegiali con la speranza e la quasi certezza che a Monaco 72 ci sarei stato. Invece sbagliai tutto: partenza, virata e nuotata … una delusione totale, forse anche “confezionata” dai professori del mio Liceo che non tolleravano la mia passione sportiva e mi boicottarono cambiandomi all’ultimo momento la materia scelta per la “maturità orale” di 10 giorni prima e creandomi un’ansia da esame che mi compromise il “tapering” pre-gare … 

Distrutto e deluso partii subito dopo in vacanza  per Sirolo con gli amici fin quando , il Giovedì sera ,  mi giunse una telefonata di mio Papà che mi comunicava che la FIN aveva deciso di permettermi di fare un tentativo isolato ai Campionati Regionali del fine settimana seguente nel quale avrei potuto “fare il tempo” richiesto per i Giochi … Ne effettuai ben tre di tentativi in due giorni , ma le notti di “bagordi” di Sirolo mi fecero nuotare sempre 3-4 decimi più di quel tempo che mi avrebbe aperto le porte di Monaco di Baviera . Nuotai ancora un anno, altre Nazionali, le Universiadi a Mosca …. Ma poi smisi.  La delusione delle mancate Olimpiadi in modo stupido condizionarono tutta la mia vita, tutti i miei comportamenti. Mi impegnavo sempre al massimo, sia negli studi Universitari, completati a ritmo di 30 e con un immancabile 110 e lode in Chimica Farmaceutica, sia nei vari sport a livello amatoriale a cui mi dedicai dopo il nuoto. I miei amici mi chiamavano “Rasputin” dato che non mollavo mai e quando sembrava che cedessi ritrovavo le forze o per una sgroppata sulla fascia sinistra nelle migliaia di partite di calcio o per un ennesimo scatto nelle gare amatoriali in bicicletta.

Trasportai questa meticolosità e impegno nella mia vita lavorativa e nell’educazione dei miei adorati figli, tutti e tre fantastici, seppur così differenti l’uno dall’altro. Non parlai mai di sport e del mio passato col mio primogenito Giacomo fino a quando cominciò a fare Atletica, a vincere le prime gare regionali, a partecipare ai Campionati Italiani … era bravo, dotato, elegante nella corsa. La passione per lo sport agonistico mi ritornò fuori. Memore del mio fantastico Papa’, in un periodo di difficoltà economica della Società ne divenni Presidente … L ‘entusiasmo di tutti quei ragazzini mi aiutò a superare le difficoltà del momento legate al divorzio, anche se Giacomo era rimasto a vivere con me e io dedicavo la mia vita a lui … Capii il perché mio Papà aveva fatto tutto quello che aveva fatto alla Nuomil. Non per suo figlio, ma per i “suoi” figli, decine, centinaia … Mi emozionavo come mai mi era successo quando i ragazzini gareggiavano, ma riuscivo a non farlo trasparire e la mia più grossa soddisfazione era che ognuno di loro, compreso mio figlio, mi voleva vicino nei momenti pre-gara dato che davo loro tranquillità fiducia con i miei consigli e parole. Furono anni stupendi, indimenticabili … “

 “Ma adesso che legami hai col mondo del Nuoto? “

 “A parte l’ovvia passione che mi porta a seguirne sempre risultati e gare, il nuoto, oltra alla mia prima moglie con cui tuttora mantengo ottimi ed affettuosi rapporti, mi ha regalato favolosi amici che resistono da 40 anni nonostante le distanze e i fatti della vita. Con alcuni di loro ci sentiamo come “fratelli”, so che posso contare su di loro e loro sanno che io sarò sempre pronto ad aiutarli nei momenti di difficoltà. Forse è proprio questa la cosa più bella che mi ha lasciato in eredità lo sport: un ‘amicizia senza “interessi”, fedele nel tempo, intensa e sincera. Forse oggi non è più così, ma io credo che condividere sudore e fatica ti leghi in una maniera che nessun’altra esperienza sia in grado di fare così intensamente”

“E a proposito, non hai finito di raccontarmi … dopo il sogno con tuo Papà, cosa facesti? Come andò finire il tuo “road-show? “

“Chiamai il Banchiere che aspettava una mia decisione e gli dissi “Jean-Francois, on y va, je laisse pas ! “. Feci ancora, da solo, dato che i miei soci avevano mollato per esaurimento psico-fisico, una settimana di road-show. La Società riuscì ad entrare in Borsa, e da allora non ci siamo più fermati. Tornato a Milano, andai al cimitero sulla tomba di mio Papà, presi il biglietto e la foto che vi avevo lasciato all’inizio del road-show, e stracciai il tutto, finalmente liberato da un ‘ossessione “

 “Ma cosa avevi scritto su quel biglietto? e la foto? cos’era? “

“Avevo scritto: “Papa’, stavolta non sbaglierò come a Torino. Tranquillo …” e la foto era la mia partenza di quella maledetta gara. Una settimana in più di sacrifici, come non feci nel 1972, mi regalò quella che oggi è una realtà di 130 persone che lavorano “per me” e “con me “. Non sanno il perché della mia determinazione e si chiedono spesso da dove e come io trovi sempre la forza per non mollare mai.  Questo è quel che mi ha insegnato il nuoto e che io cerco di trasmettere agli altri, aiutandoli, cosi ‘come noi ci aiutavamo nelle indimenticabili staffette fra amici “

 

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“Il manichino”

Stavo sul bordo vasca vicino ad altri che non erano niente per me, che non mi assomigliavano, non mi appartenevano …a malapena avevo coscienza della loro fisicità: lui invece sedeva lassù in tribuna, in uno dei settori più alti, forse per vedermi meglio o forse per non vedermi affatto.

Ero io ad averglielo chiesto intenzionalmente, dopo tutto erano passati già sei mesi dal mio abbandono agonistico e una parte di me voleva provare a vedere che effetto gli avrebbe fatto assistere ad una prova in cui sua figlia si sarebbe cimentata in qualcosa che non fosse una gara di nuoto. Per non destabilizzarlo troppo avevo voluto credere che il contesto acquatico e un esame pratico per diventare bagnino avrebbero catturato la sua attenzione, creando una sorta di continuità con il tanto amato nuoto.

Le sensazioni fisiche che avvertivo la’ in basso erano solo in parte familiari: riconoscevo l’odore caldo umido del cloro, il lontano eco delle caldaie, il mio respiro progressivamente più ritmato e il mio cuore che si stava occupando di rifornire i miei muscoli: presto avrei dovuto immergermi a 10 m di profondità per recuperare un manichino pieno d’acqua del peso di circa 50 chili e riportarlo in superficie.

Avevo difficoltà a sentirmi comoda in quel costume: era di due taglie più grande dei soliti, avevo dovuto comprarlo apposta perché in quei vecchi non ci stavo più, visti miei otto chili di troppo. Ricoperta da quello strato di grasso che tuttavia non mi apparteneva mi sentivo nuda ed esposta al giudizio altrui; probabilmente avevo valutato troppo superficialmente le conseguenze di una “guardia” così bassa, direbbero nelle arti marziali.

Un po’ come alle gare dove, dove non alzavo mai lo sguardo in tribuna prima del termine della competizione, anche lì evitai accuratamente di guardare verso mio padre: nello spazio di coscienza sapevo che c’era, lo avevo invitato, ma riuscivo come nelle migliori performance, a sospendere ogni ulteriore indagine a tale proposito; in ogni caso ne avremmo parlato dopo la prova, “comme habitude”. Un antico rituale “condiviso”, che percepivo con fiduciosa partecipazione, ignorando di essere profondamente sola in questa “reverie”, scambiandola per una zona di supposta neutralità relazionale.

Quando tocco‘ a me, feci la prova del recupero del manichino in modo deciso ed efficace, prendendo un buon punteggio anche alle prove in acqua che seguirono; sapevo con tutta me stessa che il momento della verità si stava avvicinando: sapevo che qualsiasi cosa mi avesse detto, avrebbe significato molto più delle singole parti. Intuivo che quello che stavo per ricevere sarebbe stata un’immagine reale di come “lui” mi vedeva, in questa terra del “non più” del post agonismo. Fu terribile, lo disse in una sola frase:”mi fai schifo in costume…”; mi sembra di ricordare di non aver avuto la forza di argomentare. 

Tutto finito, chiuso, buio. 

Talmente dolorosamente inaspettato, da produrre nella mia mente e nel mio cuore una sorta di dichiarazione:”jamais plus dans la vie”: dichiaravo a me stessa che non avrei più esposto me e le mie competenze al feroce giudizio di mio padre. Era l’unico potere che potevo riprendermi, data la situazione. 

Il manichino era rigido, pieno d’acqua e giaceva sul fondo: avevo voluto credere che fosse disposto a recuperarmi, ma in quel preciso momento fu chiaro che senza sapere “come”, avrei dovuto occuparmene io stessa.

(Monica Vallarin, ex atleta /scrittura autonarrativa – febbraio 2016)

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L’APPRODO

Image-1Per quanto mi sforzi di spaziare con lo sguardo a destra e a sinistra del punto “zero” dell’interruzione agonistica, noto che gli eventi situati a destra dell’asse del tempo premono sul confine della consapevolezza, unendosi come un branco di cavalli addossati alla staccionata che tentano di prevalere uno sull’altro al fine di conquistare le prime posizioni e assaporare la libertà della narrazione. Decido arbitrariamente di celebrare uno dei più potenti e inaspettati “approdi” del post-agonismo: l’incontro con lo yoga. Avevo 17 anni e nella mia mente disorientata e pressoché priva di ancoraggi, YOGA corrispondeva all’immagine di qualcuno fermo, seduto a gambe incrociate, in un luogo sicuro. Questo era ciò che inconsapevolmente andavo cercando, senza in verità averne mai fatto esperienza. Non posso nemmeno attribuirmi il merito della ricerca perché in verità fu Titti, una compagna del liceo, a propormi una lezione di prova. Mi lasciai incuriosire senza pregiudizio, lasciando che il mio corpo, la mia mente e senza saperlo anche la mia anima, facessero un’esperienza inedita e quanto mai inaspettata. Lasciarsi guidare senza sforzo in una pratica in cui mente e corpo avrebbero trovato un loro RITMO, in cui la tanto temuta FATICA avrebbe lasciato il posto al PIACERE delle sensazioni e in cui il RESPIRO avrebbe ritualizzato una tardiva ma preziosa alleanza tra le parti di me; accettandole tutte senza giudicarle e senza aspettarsi necessariamente un risultato, stemperando impercettibilmente i fantasmi della performance un respiro dopo l’altro, come in un acquerello diafano ma non per questo evanescente. Sentivo di CONSISTERE con tutta me stessa durante ogni pratica, mi riappropriato momento per momento della mia FISICITÀ e sentivo, senza spiegarmelo, che attraverso quell’esperienza stavo permettendo a tutta me stessa di raggiungere un nuovo approdo nella mia lenta transizione da atleta a persona. Fu come sentirsi a casa dopo un’estenuante viaggio: all’apparente semplicità delle pratiche corrispondeva la potenza delle sensazioni; lo yoga mi aiutava a riprendere il DIALOGO con me stessa e  con quel CORPO ormai ODIATO dal quale, senza accorgermene, avevo preso un’incommensurabile distanza; non mi ci volle una seconda prova per decidere che avrei mantenuto la promessa tacitamente formulata a me stessa nel silenzio della meditazione. Il mio maestro Ananda Ananda Saraswati me lo disse molti anni più tardi: “puoi lasciare lo yoga, ma lo yoga non ti lascia”. Sentendo  le sue parole, fu definitivamente chiaro: ciò di cui avevo fatto esperienza era da sempre con me.

( Monica Vallarin- esercizi di scrittura autonarrativa su momenti apicali della propria vita, marzo 2016)

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I MILLE PETALI dell’ATTIVAZIONE

La senti nella pancia, talvolta neIMG_2670lla gola, qualche volta la percepisci irradiarsi come energia vitale lungo le braccia e le gambe, fino alla sommità del capo; la pelle freme, il cuore batte, deglutisci… tutti  i sensi sono in ricezione, la percezione si affina fino al punto esatto in cui può esserti utile interagire con gli stimoli esterni. Percezione e intuizione tessono alleanze lungimiranti e ti sembra di vivere ciò che hai appena immaginato.

La riconosci dai pensieri che fai : diafani, certi, prospettici; non ci sono domande nella mente, non c’è spazio per i bilanci e le verifiche, tutto va bene così com’è. Avverti l’istinto di fare al meglio ciò per cui sei lì, ti sostiene la certezza profonda dell’impegno che metterai fino alla fine, non necessariamente quella del risultato, non da subito. E’ strano, quasi contraddittorio: nella parte profonda di te va tutto bene proprio perché non ci sono dubbi, solo conferme… sei talmente presente a te stesso che riesci ad osservarti fare ciò per cui ti sei tanto allenato, senza condizioni e senza giudizio.

Quando entri in quello che viene chiamato stato di flusso, è un po’ come aver staccato una parte della navicella: entri in una sorta di orbita psicofisica da cui rientrerai solo dopo la missione. In quello spazio “esclusivo” sei solo ed è proprio in questa transitoria dimensione di isolamento che puoi provare a liberare tutto te stesso: te lo sussurri intimamente… te lo ripassi nella mente …assapori l’incontro con le tue capacità e stringi indissolubilmente l’alleanza interna, ora più che mai, qualsiasi cosa accada… il resto è una semplice conseguenza.

(Monica Vallarin, aprile 2016)

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“BIGLIETTO PER MOSCA”(Finale Coppa Mosca -Piacenza 1980)

Il momento e’adesso, oggi è il giorno; non ieri, non domani .

La mia mente razionale scalpita per i risultati ottenuti negli ultimi due giorni di gara e non ci va molto a capire che sono, come si dice, “in gran forma”. Come  una giocatrice esperta  ho calibrato il sottile flusso dell’energia, un passo alla volta, una gara per volta, vasca dopo vasca; ho davanti a me una grande opportunità, ma anche una grande minaccia: tra le otto finaliste italiane nei 100 stile libero, in quella che è la “mia”gara, solo la prima, indipendentemente dal tempo cronometrico, staccherà’ il biglietto per il sogno olimpico, Mosca 1980. Lo sappiamo tutte, il criterio di selezione e’ pubblico e ben definito: mettere la mano davanti e’ l’opportunità, metterla dopo, la minaccia. Curo con estrema attenzione i particolari che contano per me: ciò che mangio a pranzo, la durata del sonnellino dopo-pasto, il ritmo con cui mi preparo, ciò che scelgo di fare o non fare nel riscaldamento pre-gara, “come” mi metto il costume per la finale e le cose che “mi dico” nella mente, in una sorta di alchemica sequenza che da un certo punto di vista ha qualcosa di un rituale magico; d’altronde e’ di una magia che si tratta, di qualcosa di straordinario, non se ne riparlerà prima dei prossimi quattro anni. Scelgo intenzionalmente di lasciarmi fluire in questa corrente che io stessa sto creando, mi sento attivata, ma a mio agio: identifico il perimetro del confine che separa l’estroversione dall’introversione, mi congedo dal mio allenatore, non guardo in tribuna, bacio Elena, la mia compagna di squadra che prenderà parte alla mia stessa finale …ci congediamo da amiche e gareggeremo da avversarie.

Rimango sola, in silenzio per i miei “soliti” venti minuti: ho bisogno di parlarmi, di dirmi le cose che mi servono e poi di tacere nella mente, di sentire solo il mio respiro e il mio cuore che mi aspetta e mi sostiene. Non vedo nessuno intorno a me, ci sono ma non li vedo, assorta in un restringimento del campo di coscienza che illumina il futuro che mi aspetta e con il quale mi connetto prima ancora di fare le prime bracciate.

Parto  e passo alla prima metà di gara insolitamente e inaspettatamente lenta rispetto alle previsioni, la mia mente razionale me lo sussurra appena ,solo quello che ci si aspetta da un complice affidabile …sono a tre quarti di gara e sono seconda, non penso più e spingo in una progressione propulsiva e consapevole verso l’arrivo: è un testa a testa, la mia mente mi sussurra che non c’è tempo per analizzare, ma solo per prendere iniziative, bracciata dopo bracciata, metro dopo metro, giocandomela con me stessa prima ancora che con S. alla mia destra. L’avversario più temibile sono io se mi lascio sopraffare dalla fatica dalle gambe che non sento più, dalla nuotata che diventa metallica, dagli ultimi metri in apnea per ottimizzare le spinte. Guardo dentro di me …mi aspetto; ci voglio tutta: anima e muscoli, mente e respiro …l’ombra scura che vedo alla mia destra mi serve solo per non perdere la direzione, niente di più .

Tocco ,guardo il tabellone elettronico: sono io ! Vedo  il tempo, il piazzamento e mi accorgo che ciò di cui sto facendo esperienza l’ho “creduto” possibile sin dall’inizio: non sono stupita, solo felice …il risultato e’ la  conseguenza dell’incondizionata fiducia che ho avuto in me stessa.

Grazie Monica !

(Monica Vallarin ,ex atleta , Psicologa dello sport-febbraio 2016 /autonarrazione)

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“La fiducia ha occhi cristallini”

Se cerco di identificare dei momenti della mia vita in cui mi sono impegnata per creare e meritare fiducia ,mi appare nella mente il mio passaggio all’agonismo e l’incontro con il mio “nuovo” allenatore. Se mi avessero lasciato scegliere non avrei fatto il salto :per quanto mi incuriosisse passare al nuoto agonistico ,percepivo l’incolmabile diversità tra l’allenatore  precedente e lui. Il primo, affettivo e giocoso, disponibile a relazioni amichevoli, amorevole e sempre piuttosto permissivo; il secondo, occhi azzurro chiaro, tono di voce autorevole e asciutto, stile di conduzione marcatamente normativo, disponibilità alla relazione confidenziale …bassissima .Mi appariva una sorta di figura algida con occhi cristallini azzurro chiaro: tutti lo chiamavano “professore”. IMG_3394Ricordo ancora l’ansietà anticipatoria e la forte propensione ad evitare quella che mi appariva un’impresa quasi “impossibile”:entrare in relazione con una persona apparentemente così distante dai miei standard di agio  relazionale .

Avrei dovuto correre il rischio di uscire dalla mia zona di comfort ! Cio’ che dopo tanto tempo mi sorprende ancora e’constatare quanto la “transizione” sia stata  non solo indolore ,ma anche profondamente sostenibile .Devo  attribuire a questo allenatore tutto il merito di avermi accolta senza pregiudizio, solo forse con una sana dose di aspettative positive ,molto tempo da dedicare alla nostra “nuova” relazione e un’infinita cura dei momenti comunicativi, privati e pubblici. “Chicco” (qualche decennio dopo ci ha autorizzato a chiamarlo così) mi ha allenata alla sintonizzazione con l’altro ,ancor prima che allo stile libero. Mi ha fatto sperimentare  come  si possa sostenere e correggere un atleta  in modo efficace, senza mai svalutarlo. Mi ha insegnato a riconoscere quali sono i momenti per dialogare e quali quelli per tacere, seduti accanto: senza spiegarmeli, facendomeli vivere.

Mi sono impegnata a farmi capire da lui, lasciandomi conoscere in modo progressivamente più consapevole, sentendo come persona e atleta potessero avere pari diritto di cittadinanza all’interno della relazione .Mi sono impegnata con il raggiungimento dei miei obiettivi agonistici, sentendo di essere vicino a qualcuno disposto a permettermi di sbagliare e di riuscire; ogni volta che ho potuto apprezzare la sincerità comunicativa e l’affidabilità di questo allenatore, le radici della fiducia in me stessa hanno potuto rinvigorirsi e ogni volta che la relazione funzionava la performance cresceva, fino a quando le aspettative reciproche hanno vibrato all’unisono  e allora abbiamo vinto entrambi.

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“MOTIVAZIONI SPORTIVE OLTRE LIMITE…”

Più volte mi sono soffermata a riflettere su come sia effettivamente avvenuto il mio passaggio alla pratica di uno sport a livello agonistico provenendo io da una famiglia per nulla sportiva e l’ho associata ad un momento particolare della mia vita. Mio padre morì improvvisamente quando io, prima di quattro fratelli, avevo appena compiuto nove anni. La disgrazia e il modo così improvviso in cui successe (morì d’infarto a casa una notte) squarciarono la mia serenità e quella della mia famiglia in maniera così violenta tanto da non permettermi di farmene una ragione e ,in un certo qual modo, di trovare una forma di rassegnazione. Dentro di me giorno dopo giorno si faceva via via sempre più forte una rabbia troppo grande perché non riuscivo a trovare giustificazioni al fatto che se ne fosse andato in quel modo…., che non potessi più rivederlo ed abbracciarlo  e che il destino avesse riservato a noi uno scherzo così crudele. Lo sport, il nuoto che praticavo in quel momento, mi offrì la possibilità di sfogare tutta questa rabbia e inquietudine che provavo dentro . Giustifico così il passaggio alla pratica agonistica, quasi, quello sfinirsi avanti indietro per le vasche di una piscina, fosse il modo per trovare una pace interiore. Inizialmente penso proprio sia stato questo poi, con il tempo, lo sport vissuto in questo modo mi ha imposto di incanalare tutti i miei sforzi e le mie energie alla ricerca del raggiungimento di obbiettivi che via mi ponevo, a breve e a lungo termine. È stato praticamente il mio modo di ribellarmi a quanto m era successo e mi ricordo che, ad ogni risultato ottenuto, mi sembrava di essergli … per così dire …più vicina. È stata per me, infine, una grande opportunità perché gli insegnamenti che lo sport agonistico ha portato li ho poi ritrovati con gli anni  nel corso nella vita. Fissarsi degli obbiettivi come punti fermi su cui lavorare e incanalare gli sforzi, la determinazione di andare sempre avanti anche di fronte alle difficoltà cercando strategie adeguate per superare i problemi, risollevarsi di fronte alle sconfitte rimboccandosi le maniche per lavorare più di prima e soprattutto sapersi mettere in gioco e farsi delle critiche credo siano solo alcuni dei degli insegnamenti che lo sport agonistico ti passa. In virtù di tutto ciò, da madre di cinque figlie, ho scelto di investire nelle sport agonistico sano  anche per loro, indipendentemente da quale sport scegliessero di praticare. Credo di non pentirmene !

Carlotta TAGNIN (aprile 2016)

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OVUNQUE , MA NON QUI

Tornata dalla California la prima cosa che ho fatto è stata andare ad allenarmi dall’ aereoporto alla piscina non stop; il fuso orario non era nulla rispetto al desiderio inconscio di verificare la mia eventuale presentabilità. Ricordo precisamente le parole che mio padre disse all’allenatore: “gliel’ho riportata”. Notai  un grande esercizio collettivo che costituiva nel trattenere lo sconcerto di fronte alla mia nuova fisicità: un ‘evidente massa muscolare coperta da poco meno di una decina di chili di troppo, distrattamente accumulati durante lo stage californiano. In acqua esprimevo molta potenza e resistenza, riuscivo quasi a stare con i maschi, ma dialogare con l’acqua e sentirmi scivolare… neanche l’ombra. Di quel periodo ricordo solo l’estrema focalizzazione sulle selezioni per i campionati mondiali che sarebbero iniziati a breve e che costituivano uno degli obiettivi a medio termine previsti dal soggiorno statunitense; uno di quegli obiettivi che  dopo tanti mesi di lavoro fisico e sfinimento psicologico un atleta dovrebbe riuscire a raggiungere senza troppe esitazioni o bilanci interni. Faccio fatica a recuperare nella mia memoria l’immagine della gara in cui mi giocai la selezione per i Mondiali devo averla archiviata profondamente o addirittura distrutta in qualche zona della mia mente.
Quello che invece è ancora piuttosto vivido dentro di me e’ la sensazione emotiva di profonda inadeguatezza rispetto alle aspettative del mondo sportivo che mi stava guardando, una percezione più simile alla vergogna, una  dimensione che avrebbe azzerato ogni futura possibilità di sentirmi ancora presentabile. Non era principalmente il senso di sconfitta verso le avversarie ,ma piuttosto il dolore e l’umiliazione connessi al non essere degna.
Se quella che per me è stata una sconfitta irreparabile avesse potuto avvenire in assenza di pubblico  forse avrei potuto metabolizzarla meglio, ma questo livello di esposizione legato anche al mio standard prestativo, riusciva  a farmi sentire senza via d’uscita. Paradossalmente, dopo gli otto mesi di semi isolamento americano (almeno così è stata la mia percezione) avevo imparato ad ascoltarmi piuttosto bene, tessendo lunghi monologhi interni con la mia autostima, consapevole di quanto fosse stata indebolita la mia fiducia interna ben prima delle selezioni.
Quando presi l’unica strada che sentivo ancora percorribile, non riuscii ad utilizzare nessun tipo di risorsa esterna: ne’ mio allenatore, ne’ compagni di squadra o la mia famiglia; vivevo le loro offerte di aiuto come vincoli assai poco desiderabili che nella migliore delle ipotesi avrebbero finito per riportarmi in prossimità delle temutissime zone di esposizione pubblica che mi avevano profondamente ferita.
Non mi sono mai pentita di aver smesso di nuotare ,ho sempre saputo che quella scelta non era di certo la migliore ,ma piuttosto l’unica possibile data la mia situazione interna .
Ho  saputo sin dall’inizio che interrompere una carriera sportiva in uno dei momenti forse più promettenti agonisticamente, avrebbe rappresentato una sorta di amputazione al potenziale residuo ma anche l’unica via di fuga per riprendere una qualche forma di controllo sugli eventi.
Il punto di non ritorno lo avevo passato molto tempo prima, senza essermene assolutamente accorta.

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