OVUNQUE , MA NON QUI

Tornata dalla California la prima cosa che ho fatto è stata andare ad allenarmi dall’ aereoporto alla piscina non stop; il fuso orario non era nulla rispetto al desiderio inconscio di verificare la mia eventuale presentabilità. Ricordo precisamente le parole che mio padre disse all’allenatore: “gliel’ho riportata”. Notai  un grande esercizio collettivo che costituiva nel trattenere lo sconcerto di fronte alla mia nuova fisicità: un ‘evidente massa muscolare coperta da poco meno di una decina di chili di troppo, distrattamente accumulati durante lo stage californiano. In acqua esprimevo molta potenza e resistenza, riuscivo quasi a stare con i maschi, ma dialogare con l’acqua e sentirmi scivolare… neanche l’ombra. Di quel periodo ricordo solo l’estrema focalizzazione sulle selezioni per i campionati mondiali che sarebbero iniziati a breve e che costituivano uno degli obiettivi a medio termine previsti dal soggiorno statunitense; uno di quegli obiettivi che  dopo tanti mesi di lavoro fisico e sfinimento psicologico un atleta dovrebbe riuscire a raggiungere senza troppe esitazioni o bilanci interni. Faccio fatica a recuperare nella mia memoria l’immagine della gara in cui mi giocai la selezione per i Mondiali devo averla archiviata profondamente o addirittura distrutta in qualche zona della mia mente.
Quello che invece è ancora piuttosto vivido dentro di me e’ la sensazione emotiva di profonda inadeguatezza rispetto alle aspettative del mondo sportivo che mi stava guardando, una percezione più simile alla vergogna, una  dimensione che avrebbe azzerato ogni futura possibilità di sentirmi ancora presentabile. Non era principalmente il senso di sconfitta verso le avversarie ,ma piuttosto il dolore e l’umiliazione connessi al non essere degna.
Se quella che per me è stata una sconfitta irreparabile avesse potuto avvenire in assenza di pubblico  forse avrei potuto metabolizzarla meglio, ma questo livello di esposizione legato anche al mio standard prestativo, riusciva  a farmi sentire senza via d’uscita. Paradossalmente, dopo gli otto mesi di semi isolamento americano (almeno così è stata la mia percezione) avevo imparato ad ascoltarmi piuttosto bene, tessendo lunghi monologhi interni con la mia autostima, consapevole di quanto fosse stata indebolita la mia fiducia interna ben prima delle selezioni.
Quando presi l’unica strada che sentivo ancora percorribile, non riuscii ad utilizzare nessun tipo di risorsa esterna: ne’ mio allenatore, ne’ compagni di squadra o la mia famiglia; vivevo le loro offerte di aiuto come vincoli assai poco desiderabili che nella migliore delle ipotesi avrebbero finito per riportarmi in prossimità delle temutissime zone di esposizione pubblica che mi avevano profondamente ferita.
Non mi sono mai pentita di aver smesso di nuotare ,ho sempre saputo che quella scelta non era di certo la migliore ,ma piuttosto l’unica possibile data la mia situazione interna .
Ho  saputo sin dall’inizio che interrompere una carriera sportiva in uno dei momenti forse più promettenti agonisticamente, avrebbe rappresentato una sorta di amputazione al potenziale residuo ma anche l’unica via di fuga per riprendere una qualche forma di controllo sugli eventi.
Il punto di non ritorno lo avevo passato molto tempo prima, senza essermene assolutamente accorta.

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