LA MIA PIÙ GRANDE PASSIONE

Beh…che dire, il nuoto è sempre stato uno sport che mi ha appassionato costantemente; uno sport pieno di emozioni e di gioie ma soprattutto anche di delusioni, delusioni che però ti fanno crescere moltissimo e ti fanno capire che non devi mai mollare ma devi sempre crederci fino in fondo.

All’età di tre anni ho iniziato a fare i miei primi corsi in piscina; mi ricordo ancora quanto mi piaceva e quanto mi divertivo con gli altri bambini, ne andavo pazza. Crescendo con gli anni ho sempre continuato ad andarci perché lo trovavo uno sport troppo divertente oltre a piacermi davvero tanto. Passavo da corsia a corsia salendo sempre di livello fino a che un giorno sono passata nell’agonismo. Avevo più o meno sei anni quando l’ho iniziato ma mi ricordo che mi piaceva davvero tanto anche perché ero con altri bambini della mia stessa età con cui potevo confrontarmi.

Giusto due annetti passati nell’agonismo e la mia voglia di nuotare era già andata via. Ero piccola e volevo provare altri mille sport e quindi decisi di andare a fare atletica. Rimasi li per ben cinque anni, sembrava avessi trovato lo sport migliore del mondo, dove mi trovavo a casa e stavo veramente bene. Mi allenavo, giocavo, partecipavo alle competizioni, facevo di tutto e di più sempre insieme alla mia squadra con cui avevo creato un legame spettacolare. Dopo questi cinque anni, dove ormai io ne avevo già ben tredici, prima di iniziare il sesto mi feci numerose domande, per esempio su quale fosse il mio obiettivo, su quale sport avrei voluto veramente fare e quale fosse la scelta più giusta da fare in quel preciso momento. Dopo giorni e giorni di riflessione avevo finalmente deciso, volevo ritornare a fare lo sport che praticavo fin da piccola, ovvero il nuoto.

Avevo tredici anni quando sono tornata e mi è bastato praticamente un giorno per legarmi con tutti i miei compagni di squadra anche perché ho un carattere molto socievole e questo mi ha aiutata molto. Avevo molta paura di ritornare, non so per quale motivo, ma avevo paura che gli altri mi giudicassero e che non fossi apprezzata.

Passato questo primo periodo, dopo mi sono trovata veramente bene, la piscina era diventata come una seconda casa anche perché la maggior parte del mio tempo lo passavo lì. Da quel giorno che sono tornata nell’agonismo non me ne sono più separata e ancora oggi ne sono moto legata.

Ogni volta che affronto una gara ho tantissima ansia, mi viene un mal di pancia fortissimo e una paura di sbagliare tutto. Negli ultimi anni questa paura si è un po’ alleggerita ma non di tanto. Questo terrore viene soprattutto quando sono alle chiamate, circondata da tantissime ragazze, dove ognuna parla del suo tempo. Nel momento in cui entro in acqua la paura passa, è come se ci fosse qualcosa li che mi sta proteggendo, e questo mi da ancora più spinta per affrontare la gara al meglio.

Quest’ultimo anno di nuoto l’ho trovato particolarmente difficile e impegnativo; cercavo di allenarmi tutti i giorni ma la maggior parte delle volte non ci riuscivo soprattutto per la scuola. Facevo terza superiore ma con lo studio, non riuscivo bene ad incastrare entrambe le cose. Nonostante lo studio poi si è aggiunto anche un dolore fortissimo alla spalla sinistra, avevo tutto il tendine infiammato e questo problema sicuramente non mi ha aiutato. Questo male è andato avanti per parecchio tempo, portandomi pure ad un pensiero di lasciare il nuoto anche perché più nuotavo e più mi faceva male. L’unico pensiero in quel momento era quello. Poi grazie anche al supporto e ai consigli di alcune mie compagne di squadra, sono andata avanti, sto tutt’ora andando avanti cercando di mettercela tutta, ma non è facile, lo ammetto; e molte volte il pensiero di lasciare il nuoto torna, anche perché magari a tutte le gare non si migliora più e magari si peggiora sempre e quindi la tua autostima scende finché ad un certo punto scoppi in lacrime e non sai più quale sia la scelta più giusta da fare.

Detto questo, io il nuoto lo trovo veramente uno sport spettacolare, capace di togliermi tutti i pensieri dalla testa e farmi pensare solo più a cosa sto facendo nell’acqua. Quando magari litigo con i miei o c’è qualcosa che non va, l’unico modo che mi fa pensare ad altro è il nuoto, il nuotare. Quando nuoto è come se ci fosse un grande cerchio tutto intorno a me che mi protegge da tutte le cose che succedono al di fuori e che mi fa sentire al sicuro da tutto e da tutti.

Ed è proprio tutto questo che mi dà la forza di andare avanti, e di mettercela tutta sempre fino in fondo; e anche se ho avuto molte, moltissime delusioni sono qua, pronta per ripartire, magari più forte di prima e con una mentalità diversa e cresciuta pronta ad affrontare di tutto!!

Veronica

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IL CAMBIO DI PROSPETTIVA DURANTE LA GARA

 

L’atleta in gara percepisce la realtà in modo altamente “individualizzato”: il vantaggio, il testa a testa e lo svantaggio, non risultano quindi situazioni uguali per tutti , ma condizioni temporanee che evocano nell’interiorità dell’atleta EMOZIONI-PENSIERI-PREVISIONI-REAZIONI diverse , fondate sul vissuto del momento e sulla qualità del rapporto che, ciò che sta succedendo nel qui-ed-ora , tesse con l’esperienza passata .

Per ogni atleta, alcune EMOZIONI risultano fisiologicamente più difficili da gestire, proprio perché depotenzianti , inibenti e talvolta ancorate ad una memoria “negativa” di un evento passato .
Come sappiamo, l’unico momento in cui l’atleta può cercare di attuare un cambiamento o attivare una reazione, è’ il momento PRESENTE , “il passato è passato e il futuro non c’è ancora”.

Una volta identificata la reazione emotiva SOGGETTIVA , connessa ad una situazione “sensibile” in gara ( vantaggio-svantaggio-testa -a-testa, fatica muscolare, errore tecnico, errore tattico , etc.) , l’atleta può consapevolmente RI-SIGNIFICARE l’evento stesso ( probabile o temuto) e attivare una sorta di RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA; a questo proposito l’atleta può per esempio farsi alcune DOMANDE STIMOLO, utili per il cambiamento di prospettiva, ad esempio :

  • “Da quali altri punti di vista potrei guardare quella possibile situazione ? “
  • Quale opportunità c’è in serbo per me in quella situazione così bloccante che vorrei evitare?”
  • ”Cosa potrei fare e pensare di diverso per gestire quell’emozione ?”
  • ”Se quel momento fosse una palestra, cosa potrei imparare ? “
  • ”Cosa mi serve CREDERE della mia capacità di gestire quella situazione?”

Questo processo di ristrutturazione cognitiva , soprattutto se coadiuvato dall’allenatore nella comunicazione “consapevole” e “orientata” con l’atleta, può generare, nel tempo, una nuova PERCEZIONE che riuscirà ad attivare innovative e favorevoli modalità di GESTIONE di GARA.

Un atleta capace di riconoscere, accogliere e gestire le l’emozioni e di dialogare proficuamente con la propria mente , non ha bisogno di fare PREVISIONI , perché riesce a darsi il permesso di CREARE ATTIVAMENTE , per quanto possibile , la REALTÀ DESIDERATA.

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“ECCELLENTE O ESIGENTE: PAROLE CHE APRONO POSSIBILITÁ”

Anche nello sport, ci sono momenti in cui il “COME” sovrasta indiscutibilmente il “COSA” e la comunicazione allenatore-atleta è certamente uno di quelli. Quando l’atleta è in prossimità del proprio limite fisico, quando l’energia comincia a scarseggiare e la fatica muscolare a togliere lucidità, quando nonostante l’impegno non si raggiunge il risultato atteso, allora le PAROLE non possono essere casuali, né quelle che l’allenatore dice all’atleta, né tanto meno quelle che l’atleta (in quello che viene chiamato “dialogo interno”) dice a se stesso.

Uno slogan recita: “sappi cosa dire, le parole verranno”: di fatto il FOCUS comunicativo è determinante per produrre l’effetto desiderato (ad esempio, la capacità di reagire, di spostare l’attenzione o di gestire un’emozione imprevista); a tal fine l’ALLENATORE dovrebbe essere “orientato” e consapevole dello stato di RICETTIVITÀ dell’atleta, prevedendo le possibili ricadute della comunicazione sul suo stato psicofisico, in relazione al compito specifico e alla sua personalità. Ma sappiamo anche che la PROSPETTIVA dalla quale prende vita la comunicazione VERBALE dell’allenatore, ha le sue radici nel sistema di valori e di convinzioni interiori e deve fare i conti, nel bene e nel male, con le sue esperienze passate.

Un tipo di approccio che definiremo “ESIGENTE”, risulta spesso incapsulato in un sistema di CONVINZIONI “limitanti” o fortemente ideologiche, capaci di generare nell’atleta stati di tensione ed ansia anticipatoria; in questi casi l’allenatore rischia di perdere la SINTONIZZAZIONE con l’atleta, “cristallizzando” la relazione fino a renderla sterile, proprio quando vorrebbe riuscire a generare calma, contenimento e disponibilità alla messa in gioco agonistica.

Quando l’attenzione è polarizzata solo su “ciò che ancora manca”, (elemento che caratterizza l’approccio “esigente”), come può l’atleta dispiegare fiduciosamente le proprie risorse del momento?

Rischierà di venir risucchiato in un vortice di ASPETTATIVE “ideali” che cercherà disperatamente di NON DELUDERE.

Affrontare una gara o un allenamento, con l’unico obiettivo di “non deludere”, risulta, nel migliore dei casi, fuorviante e rischia di attivare nell’atleta la paura di perdere la stima e l’attenzione del proprio allenatore in caso di insuccesso.

In questi casi, le possibilità di rielaborazione degli eventi agonistici (soprattutto degli insuccessi) è piuttosto bassa e fondamentalmente basata su comunicazioni “ipercritiche”, se non proprio squalificanti, che l’atleta rischierà di interiorizzare sotto forma di dialogo interno “negativo”, come sappiamo tutt’altro che propulsivo.

Non sorprende quindi che l’approccio “esigente” generi ANSIETÀ e un senso generalizzato di allerta, capace di inibire la FLESSIBILITÀ COGNITIVA e STRATEGICA dell’atleta che rischierà di reiterare meccanicamente le stesse modalità di gestione degli eventi, in modo apparentemente “ostinato”, senza più riuscire a dialogare con se stesso e con quello che lo circonda.

Quando invece allenatore e atleta condividono una prospettiva centrata sull’ECCELLENZA (capace cioè di riconoscere e valorizzare reciprocamente “ciò che è stato fatto” attraverso l’impegno congiunto di ognuno), riescono a fronteggiare non solo i successi, ma anche gli insuccessi, poiché orientano sapientemente la propria attenzione alla ricerca di “ciò che ha funzionato” ; si “allenano” a farlo anche in allenamenti e gare difficili, in cui l’atleta si è confrontato con sfide impreviste, carichi di lavoro intensi o situazioni emozionali bloccanti .

Un allineamento allenatore-atleta sul principio di “eccellenza”, potenzia la perseveranza, nutre la fiducia reciproca, riduce l’ansia e favorisce la sintonizzazione in ogni situazione, promuovendo la disponibilità ad apprendere dall’esperienza in modo costruttivo e creativo.

L’approccio ECCELLENTE favorisce un’attenta analisi dei momenti agonistici salienti, potenzia l’utilizzo di FEEDBACK VERBALI specifici e non giudicanti, genera FIDUCIA interna ed esterna e PROTEGGE dalla caduta motivazionale, proprio perché è capace di riconoscere incondizionatamente l’impegno.

Nell’AGONISMO maturo, Individuare i propri PRINCIPI GUIDA, è una pratica di consapevolezza che allenatori e atleti non dovrebbero delegare, a meno che non decidano di concedere ad altri l’irrinunciabile esercizio della propria responsabilità formativa ed umana.

 

 

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LA STAFFETTA COME ESPERIENZA INTERIORE

"LA STAFFETTA COME ESPERIENZA INTERIORE"
(Monica Vallarin, ex atleta-autobiografia sportiva, settembre 2019)
I nuotatori lo sanno bene, ognuno a suo modo, nuotare in staffetta è spesso un’esperienza straordinaria. Da atleta mi bastava che l’allenatore pronunciasse il temutissimo nome, per sentire una sorta di ansietà pervadere ogni parte del corpo, se avessi potuto scegliere, ne avrei fatto volentieri a meno. 
Il peso di quella responsabilità condivisa era troppo per me, avrei preferito rischiare da sola, mi sarebbe sembrato molto più sopportabile .
La timida consapevolezza delle mie giovani capacità non mi dava sufficienti garanzie di riuscita e la sola idea di provocare uno svantaggio alle altre, mi destabilizzava; in mezzo a tutti i miei compagni di squadra che, euforici e adrenalinici, si incitavano senza tregua, mi sentivo diversa e, se ci penso bene, un po’ sola.
Quella da reclutare, quella da raggiungere, senza saperlo, ero io o almeno quella parte di me che non avrebbe voluto coinvolgersi in una simile esperienza, il resto sarebbe stato inevitabilmente una conseguenza.
A guardar bene, nella mia attività agonistica, ho fatte innumerevoli staffette, quasi sempre in ultima frazione, tipicamente destinata al recupero di un ipotetico temibile svantaggio.
Nel tempo ho addomesticato l’ansia primordiale, spesso condividendola con la prima frazionista, ma questo ruolo forzatamente protagonistico in verità non mi e’ mai piaciuto; un ruolo che rischiava, nel bene o nel male, di accentrare tutta l’attenzione su di me.
Il senso di responsabilità a cui peraltro cercavo di rispondere, sovrastava sempre l’irraggiungibile divertimento; devo ammetterlo, a parte rare eccezioni l’ho sempre vissuta come un’esperienza vincolante e fortemente esposta al giudizio degli altri, paradossalmente assai più delle gare individuali.
Però ero velocissima, capace di ottimi cambi e determinata nella gestione dello svantaggio e questo, dal punto di vista degli allenatori, bastava.
C’e’stata una volta pero, in cui tutto è stato facile, fluido e vorrei dire spaventosamente attivante: parlo dell’eliminatoria e della finale della 4x100 mista alle Olimpiadi di Mosca 1980, frazione a stile libero. Doppio record italiano nello stesso giorno, quinto posto in finale, ma soprattutto un’intesa perfetta con le compagne di staffetta.
A 15 anni, per fronteggiare l’impatto emotivo di un’Olimpiade, la staffetta è stata una salvezza.
Alla maestosità delle tribune della piscina, alla mia percezione di inesperienza in quel contesto cosi’ prestigioso e al battere incontrollabile del mio cuore fino ai blocchi di partenza, ho potuto resistere perché ho avuto qualcuno vicino a me, qualcuno che, in modo quasi sincrono, seppur stilisticamente diverso, avrebbe fatto la propria parte perseguendo un obiettivo comune che, senza essercelo detto, siamo riuscite magicamente a raggiungere.
Laura, Sabrina, Cinzia: grazie!
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4 MINACCE NEL RAPPORTO ALLENATORE- PSICOLOGO DELLO SPORT

L’alleanza tra le parti non è scontata, non è fisiologica e non è implicita.  La fiducia va costruita, le competenze condivise. Ancora troppo spesso la psicologia dello sport fa fatica a farsi capire dagli allenatori e perde importanti opportunità per mettere a disposizione le proprie risorse nella riuscita agonistica così come nella promozione del benessere psico fisico degli atleti e dei loro staff.

Una prima minaccia al raggiungimento di una solida alleanza di lavoro risiede nell’immagine che spesso lo psicologo dello sport finisce per alimentare: quella di un “esperto” che procede in modo “blindato”, quasi occulto nel lavoro con gli atleti, senza lasciare traccia di ciò che ha compreso e delle aree su cui sta lavorando, finendo per annullare qualsiasi apprendimento da parte del sistema allenatore-atleta, invece di favorire l’autonomia relazionale ed emotiva di entrambi.

Molti allenatori, soprattutto quelli che non hanno mai sperimentato il lavoro “congiunto” con uno psicologo dello sport o peggio ancora, ne sono stati delusi o prevaricati professionalmente, possono esprimere notevoli resistenze alla sola idea di un futuro contatto, percependo la legittima preoccupazione per una potenziale perdita di territorio o per il timore di un giudizio eccessivamente critico sulle proprie modalità di gestione dell’atleta e della squadra.

Altri allenatori invece, disposti potenzialmente a delegare “completamente” la gestione degli aspetti mentali ed emozionali allo psicologo dello sport, hanno la convinzione che, una tale misura d’urgenza, vada fatta solo quando tutte le altre strade siano già risultate infruttuose; finendo quindi per incrementare l’iniziale criticità e farla diventare, nel tempo, un cronico problema, ben più radicato di quello iniziale. A questo punto, secondo un meccanismo “tutto o nulla”, lo psicologo sportivo, investito di aspettative salvifiche e risolutorie, rischierà di vedersi attribuito il merito dell’uscita dalla crisi dell’atleta, senza invece poterlo CONDIVIDERE, legittimamente, secondo un piano tripartito: con atleta e allenatore, sin dall’inizio.

Troppo spesso come Psicologi dello Sport , ci aspettiamo che gli allenatori ci diano fiducia incondizionata e si aprano al lavoro interdisciplinare senza tener conto della loro esperienza e della loro visione ; molto spesso non riusciamo a far cultura psicologica sportiva e a rendere il nostro ambito applicativo , chiaro e condiviso , divulgando e raccontando i nostri apprendimenti , invece di aspettarci un riconoscimento implicito delle nostre professionalità , che ancora una volta ,rischiamo di tener criptate nei nostri studi . Permettere in nuovi modi, agli allenatori, di FARE ESPERIENZA DI NOI E CON NOI, penso sarebbe il primo passo per far crescere LA FIDUCIA E LA COLLABORAZIONE e perché no, i risultati.

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LETTERA MAI SCRITTA AL MIO ULTIMO ALLENATORE

Le scrivo perché forse c’è qualcosa che non è stato detto e che si e’ incastrato da qualche parte dentro di me: il modo in cui abbiamo concluso la nostra interazione in qualità io di atleta e lei di allenatore, ha qualcosa di tristemente sorprendente. Premesso che non mi sono mai pentita di aver smesso, come mi capita spesso di dire , visto che e’ l’unica cosa che sono riuscita  a fare dato il mio livello di sfiducia emotiva e il profondo senso di inadeguatezza al compito e al ruolo di futura probabile olimpica, voglio però condividere con lei alcune sensazioni che mi hanno per molti anni attanagliato .

Ho impiegato molto tempo a ricostruire un’immagine di me di valore, a ricostruire un dialogo interno che non parlasse solo di nuoto, del nuoto, del “mio” nuoto, da cui mi sono congedata irreparabilmente proprio quando tutti, e anche lei, mi dicevano di continuare; mi sono sentita profondamente sola nel momento di quello che allora definivo un “fallimento”, un momento in cui dopo tanto impegno e tanta fatica fisica e psicologica non sono riuscita a raggiungere due tra i  più importanti obiettivi della mia breve e intensa carriera di nuotatrice: i campionati mondiali e la seconda Olimpiade, quella dell’agonismo maturo.

Non mi è bastata la sua competenza tecnica, né i lavori “su misura” durante il devastante anno in California, per avvicinarmi ad un sogno, senza capire che sarebbe stato il rimanere a portarmi lontano .

Non ricordo la sua posizione in relazione alla mia partenza per gli stati Uniti, ma forse , se penso che nemmeno i miei genitori avevano provato a dire la loro riguardo agli otto mesi all’estero, comprendo che non sia stato facile per nessuno addossarsi la responsabilità del trattenermi .

Non vuole essere un rimprovero, solo uno sfogo o forse una riflessione introspettiva sulla mia natura, a quel tempo, sfidante e alla perenne ricerca di un limite da varcare, di un tempo da migliorare; sapevo che la partenza mi avrebbe condannato ad una sorta di esilio relazionale e ad una deprivazione affettiva; forse volevo solo mettere alla prova la mia supposta onnipotenza, oltre alla mia tenuta agonistica .

Non  ho memoria di una nostra comunicazione in quegli otto mesi e mezzo e questo qualcosa  vorrà dire: io l’ho esclusa dal mio campo di coscienza, io mi sono sentita esclusa dal suo .

Tutto sommato forse siamo stati più allineati di quello che abbiamo pensato .

Ho tacitamente lasciato che il silenzio riempisse il vuoto geografico ed esistenziale che non riuscivo ad arginare, ma ho sempre desiderato tornare : la mancanza della mia squadra, della mia famiglia, del mio primo amore da adolescente è stato dilaniante, ma non sono riuscita a darmi il permesso di farlo, scambiando l’ascolto dei miei bisogni più profondi per una debolezza.

Non credo che adattarsi al distacco sia una questione di grinta, penso che si tratti piuttosto di un complesso esercizio di adattamento emotivo che mette alla prova la fiducia interna e la capacità di essere presenti a se stessi prima di tutto ; non sono certa della sua comprensione e nemmeno della sua stima, passata e presente, ma voglio che lei sappia che ho potuto andare oltre tutto questo e che, in caso lo abbia fatto, non dovrà rimproverarsi più nulla in merito alla mia interruzione agonistica.

Sono qui per dirle che per troppo tempo le ho attribuito parte di questa responsabilità e non le nascondo che lo scambio di alcune gelide frasi di congedo risuonano ancora dolorosamente dentro di me , ma nello stesso tempo voglio dirle che sono riuscita a vedere oltre tutte le parole non dette, di cui peraltro avrei avuto  molto bisogno , una sua impossibilità e non una punizione.

Spero che questo mio scritto possa restituirle parte del valore che il nostro rapporto, allenatore-atleta, ha indiscutibilmente avuto nella mia e forse nella sua carriera agonistica.

Monica Vallarin

 

 

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IL TALENTO E I SUOI ALLEATI

Pensarlo come un processo “tutto-o-nulla” sarebbe indubbiamente una pericolosa semplificazione, visto che l’espressione del TALENTO ha bisogno di MOLTE OPPORTUNITÀ per trovare la forza e il CORAGGIO di esprimersi: in casi del genere AUMENTARE IL NUMERO delle OPZIONI di RIUSCITA e’ uno STRATAGEMMA assai potente, (per ex . frazionando l’obiettivo in più tappe, sperimentandosi in gare diverse, gestendo le “proprie” gare in modo diverso, utilizzando tutte le gare per “allenare” nuove abilità).
Il talento ha bisogno di TEMPO, di un TEMPO UTILE E SIGNIFICATIVO da un punto di vista SOGGETTIVO e non solo OGGETTIVO.
L’atleta per esprimersi deve poter PERCEPIRE il TEMPO come ALLEATO e non come una minaccia, la PERSEVERANZA nutre il TALENTO e lo MANTIENE, offrendo ulteriori opportunità.
L’espressione del talento ha bisogno di una RETE CHE SOSTIENE: performare significa anche ESPORSI al giudizio, alle opinioni degli ALTRI e alle loro ASPETTATIVE: percepire che il tuo ENTOURAGE ACCOGLIE, ANALIZZA DESCRITTIVAMENTE e VALORIZZA con te il tuo RISULTATO e il tuo IMPEGNO, costituisce indubbiamente un FATTORE PROTETTIVO.
E infine uno dei fattori più critici, la CONVINZIONE: “CREDERE PER VEDERE”(e non VEDERE PER CREDERE!) nel caso del talento, aiuta la fiducia, favorisce la MESSA IN GIOCO dell’atleta e aiuta a COSTRUIRE GRADUALMENTE la REALTÀ DESIDERATA. Quando ALLENATORE e ATLETA sono sintonizzati su questo livello, calmi ma fiduciosi, senza la percezione di DOVER DIMOSTRARE agli altri, allora il TALENTO, frutto della sinergia e dell’impegno di molti, si LIBERA SENZA RISERVE.
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INCONTRAMI al PRE-GARA

INCONTRAMI al PRE-GARA”
( Monica Vallarin, Psicologa dello Sport )
A volte lo scopri per caso, altre lo assembli in modo tecnologico, in altre ancora cerchi di farlo assomigliare a quello di qualcun altro, ma quando non sai più dove cercare, puoi guardarti dentro e chiedere in prestito a te stesso quello che hai l’impressione di non avere. Se c’è un appuntamento al quale bisogna essere presenti a se stessi questo e’ il pre-gara : quel territorio spazio-temporale che ogni atleta abita in modo altamente personalizzato, ma non sempre utilizzabile.
E’ certamente un frammento di tempo che mette alla prova la sensazione di efficacia negli atleti, la loro fiducia interna e la loro centratura rispetto alle coordinate di viaggio della gara che stanno per fare; è un momento potentemente sociale, ma paradossalmente di intensa solitudine.
La prossimità fisica con gli avversari e’ attraversata da segnali  non verbali più o meno consapevoli e le spinte istintuali di dominanza e competitività finiscono spesso per valere più delle parole dette o taciute. Ogni atleta, soprattutto se di uno sport individuale,ha l’onere e il privilegio di transitare dal pre-gara in discreta solitudine psichica e affettiva, se non proprio sociale. È una condizione che bisogna imparare a gestire per evitare che si trasformi in un vincolo o, peggio ancora, in una trappola che sottrae energia,minando lo stato mentale ed emozionale dell’atleta.
In questa fase, che precede l’espressione del potenziale e il contatto con il limite fisico e mentale, l’atleta si trova necessariamente ad affrontare alcuni COMPITI di assoluta rilevanza ai
fini della prestazione:
  • la gestione della sensazione di efficacia personale in relazione al compito e al ruolo
  • il livello di adattamento all’ambiente fisico e sociale, non sempre prevedibile e controllabile
  • la regolazione dello stato di attivazione neurofisiologica in relazione all’obiettivo e al compito
  • il flusso eventuale di pensieri ed emozioni più o meno orientato
  • i dialoghi interni (con se stesso)ed esterni (con gli altri)
  • la gestione delle aspettative interne (le proprie)ed esterne (quello delle altre figure rilevanti per l’atleta)
  • il ricordo di gare precedenti,che talvolta invade il presente, diminuendo la connessione nel qui-ed-ora del pre-gara
  • la qualità dell’allineamento tra pensiero ed emozione (se l’atleta si sente debolmente efficace o eccessivamente esposto al compito e al giudizio altrui, può fare l’esperienza di pensieri ed emozioni disattivanti dal punto di vista prestativo)
  • l’allineamento tra obiettivi consapevoli e aspettative di risultato, che quando divergono producono disattivazione e demotivazione.
Ognuno di questi aspetti può essere considerato un’area potenziale di sviluppo,un terreno fertile e delicato che ha bisogno di cure e attenzione per poter dare i suoi frutti. Un pre-gara ottimale non può
essere prescritto o preso in prestito da quello di altri, ma potrà invece essere costruito “ad hoc” sui bisogni e sulle attitudini del singolo atleta, che diventerà progressivamente più esperto nell’attivare i fattori mentali, relazionali ed emozionali utili in quel momento, dentro e fuori di sé.
Gli ALLENATORI orientati all’ASCOLTO EMOZIONALE e CONSAPEVOLI degli effetti della COMUNICAZIONE ORIENTATA, capaci di BUONI DIALOGHI con l’atleta, ma DISPONIBILI al SILENZIO quando serve, attivamente SINTONIZZATI con l’atleta , possono essere i migliori ALLEATI, provare per credere.


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LETTERA AL MIO UNICO ALLENATORE

Caro Enrico, ti scrivo per ringraziarti dell’insegnamento che mi hai dato: all’inizio mi hai fatto comprendere come l’autorevolezza nella relazione con l’altro, abbia le sue radici nell’autentico intento di dare, di darsi; mi hai fatto capire che il livello di confidenza e di apertura reciproca, tra un adulto e un’ atleta adolescente, debba essere gestito e modulato in una sorta di progressione armonica, ben diversa da un pericoloso meccanismo tutto-o-nulla.
A pensarci bene, abbiamo impiegato più di trent’anni affinché, darti del “tu”, potesse essere un’opportunità e non una minaccia; mi hai insegnato che per credere incondizionatamente in un obiettivo, non si può essere da soli, nemmeno in uno sport spietatamente individuale come il nuoto. Mi hai fatto capire che le aspettative degli altri vanno gestite emozionalmente e non vanno sottoscritti “mandati” agonistici che non condividiamo; mi hai insegnato che ci va tempo per sincronizzare mente ed emozione, proprio come facevamo prima di ogni gara: non era solo ciò che mi dicevi, ma soprattutto “come” me lo dicevi e in quale preciso momento, in una sorta di rituale relazionale in cui finivamo per credere possibile ciò che avevamo preparato negli allenamenti. Io ero l’esecutrice in acqua, ma l’ideazione e la strategia era congiunta e ben ancorata al nostro impegno quotidiano.
Grazie per aver creduto in me a prescindere dai risultati cronometrici del momento, ma la cosa per la quale forse ti devo ringraziare maggiormente e’ di avermi perdonata per essermene andata, per aver cambiato società senza aver avuto il coraggio di condividere con te una scelta, che come sai, è stata conflittuale, anche se agonisticamente generativa; una scelta in cui, nel bene e nel male, ho dovuto imparare a fare senza la tua autorevole umanità, permanentemente, da sempre, con me.
Monica

 

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SIPPY: L’UNICA

L’avevo vista per la prima volta sulla copertina di una rivista sportiva e tanto per cominciare avevo iniziato a forarmi le orecchie come lei, che era la campionessa mondiale dei 200 stile libero. Mai avrei detto che le avrei nuotato accanto per otto mesi solo qualche anno più tardi; il suo nome WOODHEAD, che tradotto vuol dire “testa di legno”, era già un programma: in quanto a tenacia, perseveranza e resistenza al dolore non era seconda nessuno. Più bassa di me di statura, con un fisico compatto e proporzionato e tutto sommato poco appariscente, sembrava quasi un ‘atleta come le altre, almeno finché rimaneva fuori dall’acqua, ma una volta in vasca Sippy esprimeva il suo potenziale psicofisico con una serie deflagrante di reazioni a catena, motivo per cui aveva un allenatore tutto per se’. Scott era una sorta di personal swimming coach che la monitorava accudendola, in ogni fase dei massacranti allenamenti preparati solo per lei. A noi non restava che ammirarla, tenendoci a rispettosa distanza e riconoscendole il merito di saper soffrire in silenzio e di fare quasi tutto da sola; c’erano giorni in cui suo talento acquatico e la sua competitività brillavano ai nostri occhi di semplici primatiste italiane, agoniste “quasi per caso”, se paragonate agli standard di Sippy. Vederla in azione in palestra, ci faceva capire cosa volesse dire raggiungere il limite per andare oltre, senza nemmeno dire una parola; durante gli allenamenti solo le lacrime erano ammesse e tutti noi lo sapevamo. Ciò che ancora oggi me la fa apparire unica e speciale e l’umiltà agonistica che la caratterizzava, la sobria gentilezza me verso la squadra e il suo pacato entusiasmo nei confronti delle proprie performance mondiali, la sua attitudine silenziosa e sfuggente tanto da sfiorare la solitudine. Penso che se fossi riuscita a gareggiare al suo livello avrei voluto assomigliarle; è stata l’unica atleta statunitense che ho portato nel cuore, al mio ritorno dalla California.

(Monica Vallarin, ex atleta – esercizi di scrittura autonarrativa / Ottobre 2017)

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