RICORDO DI UN’ESPERIENZA PASSATA

STORIE DI SPORT – MONICA CORO’

RICORDO DI UN’ESPERIENZA PASSATA

Ho iniziato a nuotare a 8 anni, scuola nuoto

Perché ho scelto il nuoto ?

Mio padre mi aveva iscritto a scuola tennis e scuola nuoto contemporaneamente, dopo qualche mese mi ha detto che dovevo scegliere uno dei due.

Premetto che il mio sogno era danza classica, ma mi è stato ripetutamente vietato da entrambi i genitori con motivazioni assurde:  con la danza classica ti vengono le gambe grosse e rimani piccola….

Anche a quell’età capivo che non erano motivazioni valide (avevo un paio di amiche che facevano danza classica e potevo constatare che non era così)

Con questo mio sogno reso impossibile, ho scelto il nuoto, non perché mi piacesse ma tra i due sport mi sembrava quello meno peggio, forse perché non mi piaceva l’odore della terra rossa sotto il pallone d’inverno

Durante i miei corsi di scuola nuoto ho pianto tanto, in particolare con un’istruttrice poco simpatica e molto severa

Finita la scuola nuoto è arrivata la pre-agonistica. Successivamente a causa del trasferimento con la famiglia in un’altra casa, proprio a poche centinaia di metri dalla piscina del CONI, mio padre mi ha iscritto in una vera società di nuoto per fare agonismo.

Manco a dirlo non mi è mai stato chiesto se mi piacesse nuotare, domanda che non mi sono mai sentita rivolgere in tutti gli anni di nuoto; le cose si dovevano fare perché mio padre lo decideva, negli anni a venire avrei scoperto che lo faceva per se stesso, le mie vittorie erano le sue vittorie, le mie sconfitte motivo di grande delusione per lui che voleva vedere realizzati i suoi sogni di calciatore mancato attraverso me

Con questo fardello da portare non mi è mai stato possibile godere di questo sport come scelta consapevole bensì come imposizione

Ricordi traumatici sono quelli che conservo impressi nella mia mente quando piccolina e magrolina iniziavo i miei primi allenamenti con la nuova squadra, fatta di bambini già da tempo abituati ad allenarsi.

Io invece venivo da una piccola piscina da 18 metri, non sapevo cosa fossero gli allenamenti per di più in vasca da 25 mt e con acqua spesso gelida, Ho pianto tanto mentre nuotavo e stretto i denti, non avevo altra scelta.

Così anche negli anni a venire, condannata a nuotare perché nel frattempo mio malgrado arrivavano i risultati, sempre più importanti, fino ad arrivare a vincere i campionati italiani di categoria ed assoluti ed ad entrare in nazionale.

Per fortuna sono riuscita a trovare comunque dei momenti piacevoli; dal momento che le mie giornate di svolgevano tra la scuola e la piscina, non avevo molto tempo per coltivare le mie amicizie “esterne” ed ho quindi trovato una squadra di ragazzi/e simpatici con i quali divertirmi prima e dopo l’allenamento.

Alle gare più importanti loro non riuscivano a qualificarsi, ed io mi ritrovavo a dover andare in trasferta da sola, accompagnata dal mio allenatore e da mio padre (onnipresente),con tutto il carico di ansie e aspettative che questo comportava.

Ho molto sofferto di questa mancanza di presenza della squadra, di far parte di un gruppo per poter condividere questi momenti molto importanti.

I vari allenatori che si sono susseguiti per mia fortuna non sono stati niente male,  non troppo severi, e  simpatici da rendermi questa attività un pò più accettabile.

Ci sono stati momenti felici vi chiederete, possibile che sia stato tutto così negativo e traumatico ?

La parte negativa e traumatica è quella relativa alla presenza oppressiva di mio padre che mai si è preoccupato di chiedermi se mi piaceva quello che facevo, mi ha obbligato a continuare a nuotare con il ricatto quando volevo smettere, che ha sfruttato le mie doti e quindi i miei successi per farli suoi e compensare le sue mancanze e desideri di rivalsa.

Non so se si sia mai reso conto di quello che faceva; non credo perché in tutta la sua vita non a mai speso una parola in tal proposito.

La parte positiva è stata, che acquisito consapevolezza delle mie capacità e sono riuscita ad esserne soddisfatta.

La disciplina ferrea mi ha forgiato, ho imparato a soffrire, andare avanti e a capire che per ottenere dei risultati bisogna crederci.

Questo nella vita adulta mi ha aiutato moltissimo.

Lo sport è una grande scuola di vita

La mia rivincita è stata nuotare e gareggiare da master, dopo aver smesso di nuotare a 18 anni e non aver messo più piede in piscina per 10 anni.

La decisione di tornare a nuotare per poter finalmente farlo come volevo, una libera scelta consapevole.

Devo dire che mi sono ampiamente rifatta di quello che mi era mancato prima:  senso di appartenenza ad una squadra, scegliere quanto allenarmi, quali gare scegliere.

Ho scoperto piacevolmente che la testa fa la differenza anche a 50 anni, quando il fisico non è più quello dei 16 anni e nemmeno le energie e gli allenamenti .

Nuotare perché lo volevo io, ho potuto godere pienamente delle  mie vittorie, accettando anche i risultati negativi con consapevolezza e ponendomi sempre degli obiettivi sui quali lavorare.

Quando penso al mio talento giovanile, mi rendo conto che è andato sprecato, non coltivato.

Negli anni ’70 non veniva data molta importanza all’aspetto psicologico, noi ragazzini venivamo buttati in acqua a nuotare senza alcuna consapevolezza di cosa facevamo, quali potevano essere i nostri obiettivi, con quali modalità raggiungerli.

Infine il nuoto tanto odiato e poi accettato e accolto, ha segnato e continua a segnare la mia vita tanto da non poterne più fare a meno e che anche adesso mi continua a proporre  nuove modalità di attuazione poiché gli anni passano e l’approccio di conseguenza richiede degli adattamenti

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SFIDE E OPPORTUNITÀ’ FUORI DALL’ACQUA: il NUOTO ai tempi del CORONA VIRUS

Per riprendere a nuotare dopo il coronavirus dobbiamo partire dal presente, perché “ogni viaggio comincia da vicino”.
I nuotatori hanno un indiscutibile punto di forza nella capacità, pressoché innata, di tollerare elevati livelli di introversione e solitudine, riuscendo a rimanere immersi a lungo in un liquido e affrontando livelli di sforzo prolungati quanto intensi.
Possiedono però una grande criticità sport-specifica: hanno bisogno di un dialogo ininterrotto con le sensazioni acquatiche, devono cioè poter rifornire la propria senso-percezione attraverso la “magia” del galleggiamento, della spinta e dello scivolamento; in un momento come quello che stiamo attraversando, l’inaccessibilità agli impianti costituisce per i nuotatori un limite che devono riuscire a gestire, senza peraltro potersi avvalere di esperienze passate di tale portata.

Essere “fuori” dall’acqua, mina in alcuni casi la sensazione di “efficacia” dell’atleta, finendo per destabilizzare la sua sicurezza agonistica e il contatto con le proprie capacità .
Il ritmo della routine quotidiana risulta ampiamente alterato e, paradossalmente, il poter disporre di un tempo più dilatato, risulta talvolta disadattivo per il nuotatore agonista, fin troppo abituato ad affrontare giornate serrate, senza tempi residui.

Il cambio di ritmo va gestito, ma molti atleti non si sono mai trovati di fronte ad un simile compito e si sentono “disattivati”, se non proprio demotivati .
Ai tempi del coronavirus, il microcosmo agonistico deve probabilmente arrendersi ed accettare di far parte del “tutto”, in una sorta di inevitabile partecipazione alla vulnerabilità collettiva.

La consapevolezza di ciò che sta avvenendo , va ben al di là del bordo vasca e disallinea l’assetto mentale ed emozionale dell’atleta, che fatica così a ri-organizzare la propria interiorità, oltre che la propria routine, toccato da pensieri ed emozioni che potrebbero trovarlo impreparato e talvolta spaventato . Anche il forte “individualismo”di una disciplina come quella natatoria , potrebbe non avere “allenato” a sufficienza la tenuta psicologica dell’atleta adolescente, che si trova ad aver perso, in periodi come questo ,ogni possibilità di contatto “in vivo”con i compagni, con l’allenatore e con la squadra.

Il supporto, l’affettività , la visibilità sociale, il rispecchiamento reciproco e il riconoscimento, intesi come imprescindibili fattori evolutivi e motivazionali dell’atleta, risultano attualmente quasi inaccessibili, amplificando talvolta una potenziale sensazione di “esclusione affettiva”, oltreché agonistica in molti ragazzi .
Credo che mai come ora, atleti e allenatori, possano cercare di trasformare il limite in possibilità : perché sappiamo che ogni esperienza , anche quelle che non avremmo mai voluto fare, può generare apprendimenti inaspettati; ogni sfida contiene infatti l’embrione di una potenziale opportunità .

Diventare artefici di routine stra-ordinarie e innovative, centrate su ciò che gli atleti “possono fare” e non cristallizzate su ciò che è impossibile fare , lascia spazio alla FATTIBILITÀ e alla creatività: scoprire routine e pratiche quotidiane che potranno aiutare gli atleti a migliorare la consapevolezza di sé , arricchendo la loro capacità di ascoltarsi senza giudizio, potrà diventare un vero e proprio punto di forza alla ripresa delle attività agonistica; alcune pratiche legate all’osservazione dei propri stati mentali ed emozionali, giorno per giorno, regolarmente appuntati in un diario emozionale, potranno favorire la consapevolezza dell’atleta nei confronti delle proprie personali modalità di gestione degli eventi ; inoltre , la capacità di elaborare piani personali “costruttivi”, in un momento in continua trasformazione, potrà costituire un ottimo allenamento per gestire lo “svantaggio” in gara e ancora , dedicare un piccolo spazio della giornata a pratiche di rilassamento e integrazione psicofisica, potrà tornare estremamente utile in prossimità delle gare e in camera di chiamata.

Ma c’è un aspetto che forse più di ogni altro potrà essere propulsivo e supportivo nel momento della ripresa della attività: l’allenamento alla autentica relazionalità tra allenatori e atleti ; in una fase che mette così a dura prova la relazione allenatore-atleta, sarà proprio una diffusa e intenzionale RELAZIONALITÀ a costituire l’antidoto .
Una comunicazione orientata e condivisa, capace di riconoscere le singole individualità dei ragazzi e i loro differenti bisogni, faciliterà il rapporto e l’espressione delle emozioni reciproche e favorirà una sana alleanza di lavoro da spendere in allenamenti e gare. La condivisione delle reciproche vulnerabilità, con fiducia e accettazione incondizionata, potrà favorire e nutrire il terreno della ripresa, perché nulla è più potente di un allenatore responsabilmente umano e capace di gestire l’emergenza “emozionale” che attraversa i propri atleti.
Credo che sentirsi autenticamente accolti dal proprio allenatore, a prescindere dalla forma fisica che tanto preoccupa i ragazzi, possa essere parte di un nuovo “inizio”, da gestire con la stessa CURA , che tutti gli “esordi” importanti meritano, accompagnata da quel RITMO calmo e bilanciato, che solo gli adulti competenti e fiduciosi riescono a trasmettere.
Il resto sarà una scoperta.

(Monica Vallarin, Psicologa dello Sport ed ex atleta – 4/4/2020)

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LO STATO DI FLUSSO, QUESTO SCONOSCIUTO

Molti atleti non ne hanno ancora fatto esperienza e provano ad immaginarlo, talvolta ne sentono parlare, ma non sanno come “entrare” in quella condizione straordinaria chiamata “flow”, per noi “stato di flusso”.

Si tratta fondamentalmente di uno stato PSICO-FISICO estremamente armonico ed integrato, in cui il triangolo MENTE-CORPO-EMOZIONE dialoga in modo chiaro e convergente in prossimità e durante la GARA, ma più ampiamente di un COMPITO che prevede l’attivazione delle proprie CAPACITÀ MENTALI, FISICHE ed EMOZIONALI per il PERSEGUIMENTO di un OBIETTIVO sentito come SOSTENIBILE e SIGNIFICATIVO per l’atleta.

Nello STATO DI FLUSSO l’atleta riesce a REGOLARE la propria ATTENZIONE in modo funzionale alla GESTIONE degli stimoli nel qui-ed-ora della situazione, riuscendo a restringere o ad ampliare il proprio FOCUS ATTENTIVO in modo da tenere nel campo di COSCIENZA solo ciò che È’ UTILE e “sorvolando” aspetti potenzialmente minacciosi, interferenti e non modificabili.

Gli ALLEATI di questa condizione interna sono una buona CONSAPEVOLEZZA dei propri PUNTI DI FORZA, una PERCEZIONE dell’evento GARA come di una situazione in cui SPERIMENTARSI e non come un processo “TUTTO-o-NULLA” in cui il paradigma VINCERE-PERDERE, RIUSCIRE -FALLIRE offre DUE sole POSSIBILITÀ ; in tal senso, mettersi in gioco in una situazione PERCEPITA come ricca di OPPORTUNITÀ , aiuta l’atleta ad attivare un’attitudine mentalmente FLESSIBILE, emotivamente AUTO-SUPPORTIVA e FISICAMENTE disponibile allo SFORZO senza riserve o CONVINZIONI LIMITANTI rispetto alla propria tenuta .

Naturalmente, la FIDUCIA INTERNA, la QUALITÀ delle ASPETTATIVE ESTERNE (allenatori, genitori e compagni) e il CLIMA SITUAZIONALE (interno ed esterno) in cui l’evento GARA ha luogo, può facilitare o inibire l’entrata nello stato di FLUSSO ed è per questo che la qualità delle COMUNICAZIONI e delle relazioni dovrebbe essere ORIENTATA (perché consapevole) e RISPETTOSA (perché facilitante), del PRE GARA dell’ATLETA.

Il DIALOGO INTERIORE, le parole che l’atleta stesso si dice, riveste un ruolo determinante per entrare nello stato di flusso, ma funziona solo se autenticamente “ancorato” e capace di decomprimere ed allineare mente ed emozione.

Ogni atleta può quindi “nutrire” il proprio scenario interiore e predisporsi allo STATO di massima CONNESSIONE, i cui ingredienti alchemici sono i seguenti: MENTE, solo quanto serve, ISTINTO ed EMOZIONE, che danzano all’unisono e il CORPO, che mette in azione il programma motorio con un’interpretazione sublime e talvolta inaspettata.

Non c’è da stupirsi se l’atleta NON RICORDERÀ i dettagli di ciò che ha appena realizzato, ma continuerà a dire che è stato inspiegabilmente FACILE, con un senso di vaga DISPERCEZIONE spazio-temporale: lo stato di flusso assomiglia infatti ad una magia che avvolge e protegge l’atleta dalle percezioni minacciose e lo mette al centro di una REALTÀ “desiderata”, da poter costruire più che controllare.

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IL CAMBIO DI PROSPETTIVA DURANTE LA GARA

 

L’atleta in gara percepisce la realtà in modo altamente “individualizzato”: il vantaggio, il testa a testa e lo svantaggio, non risultano quindi situazioni uguali per tutti , ma condizioni temporanee che evocano nell’interiorità dell’atleta EMOZIONI-PENSIERI-PREVISIONI-REAZIONI diverse , fondate sul vissuto del momento e sulla qualità del rapporto che, ciò che sta succedendo nel qui-ed-ora , tesse con l’esperienza passata .

Per ogni atleta, alcune EMOZIONI risultano fisiologicamente più difficili da gestire, proprio perché depotenzianti , inibenti e talvolta ancorate ad una memoria “negativa” di un evento passato .
Come sappiamo, l’unico momento in cui l’atleta può cercare di attuare un cambiamento o attivare una reazione, è’ il momento PRESENTE , “il passato è passato e il futuro non c’è ancora”.

Una volta identificata la reazione emotiva SOGGETTIVA , connessa ad una situazione “sensibile” in gara ( vantaggio-svantaggio-testa -a-testa, fatica muscolare, errore tecnico, errore tattico , etc.) , l’atleta può consapevolmente RI-SIGNIFICARE l’evento stesso ( probabile o temuto) e attivare una sorta di RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA; a questo proposito l’atleta può per esempio farsi alcune DOMANDE STIMOLO, utili per il cambiamento di prospettiva, ad esempio :

  • “Da quali altri punti di vista potrei guardare quella possibile situazione ? “
  • Quale opportunità c’è in serbo per me in quella situazione così bloccante che vorrei evitare?”
  • ”Cosa potrei fare e pensare di diverso per gestire quell’emozione ?”
  • ”Se quel momento fosse una palestra, cosa potrei imparare ? “
  • ”Cosa mi serve CREDERE della mia capacità di gestire quella situazione?”

Questo processo di ristrutturazione cognitiva , soprattutto se coadiuvato dall’allenatore nella comunicazione “consapevole” e “orientata” con l’atleta, può generare, nel tempo, una nuova PERCEZIONE che riuscirà ad attivare innovative e favorevoli modalità di GESTIONE di GARA.

Un atleta capace di riconoscere, accogliere e gestire le l’emozioni e di dialogare proficuamente con la propria mente , non ha bisogno di fare PREVISIONI , perché riesce a darsi il permesso di CREARE ATTIVAMENTE , per quanto possibile , la REALTÀ DESIDERATA.

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“ECCELLENTE O ESIGENTE: PAROLE CHE APRONO POSSIBILITÁ”

Anche nello sport, ci sono momenti in cui il “COME” sovrasta indiscutibilmente il “COSA” e la comunicazione allenatore-atleta è certamente uno di quelli. Quando l’atleta è in prossimità del proprio limite fisico, quando l’energia comincia a scarseggiare e la fatica muscolare a togliere lucidità, quando nonostante l’impegno non si raggiunge il risultato atteso, allora le PAROLE non possono essere casuali, né quelle che l’allenatore dice all’atleta, né tanto meno quelle che l’atleta (in quello che viene chiamato “dialogo interno”) dice a se stesso.

Uno slogan recita: “sappi cosa dire, le parole verranno”: di fatto il FOCUS comunicativo è determinante per produrre l’effetto desiderato (ad esempio, la capacità di reagire, di spostare l’attenzione o di gestire un’emozione imprevista); a tal fine l’ALLENATORE dovrebbe essere “orientato” e consapevole dello stato di RICETTIVITÀ dell’atleta, prevedendo le possibili ricadute della comunicazione sul suo stato psicofisico, in relazione al compito specifico e alla sua personalità. Ma sappiamo anche che la PROSPETTIVA dalla quale prende vita la comunicazione VERBALE dell’allenatore, ha le sue radici nel sistema di valori e di convinzioni interiori e deve fare i conti, nel bene e nel male, con le sue esperienze passate.

Un tipo di approccio che definiremo “ESIGENTE”, risulta spesso incapsulato in un sistema di CONVINZIONI “limitanti” o fortemente ideologiche, capaci di generare nell’atleta stati di tensione ed ansia anticipatoria; in questi casi l’allenatore rischia di perdere la SINTONIZZAZIONE con l’atleta, “cristallizzando” la relazione fino a renderla sterile, proprio quando vorrebbe riuscire a generare calma, contenimento e disponibilità alla messa in gioco agonistica.

Quando l’attenzione è polarizzata solo su “ciò che ancora manca”, (elemento che caratterizza l’approccio “esigente”), come può l’atleta dispiegare fiduciosamente le proprie risorse del momento?

Rischierà di venir risucchiato in un vortice di ASPETTATIVE “ideali” che cercherà disperatamente di NON DELUDERE.

Affrontare una gara o un allenamento, con l’unico obiettivo di “non deludere”, risulta, nel migliore dei casi, fuorviante e rischia di attivare nell’atleta la paura di perdere la stima e l’attenzione del proprio allenatore in caso di insuccesso.

In questi casi, le possibilità di rielaborazione degli eventi agonistici (soprattutto degli insuccessi) è piuttosto bassa e fondamentalmente basata su comunicazioni “ipercritiche”, se non proprio squalificanti, che l’atleta rischierà di interiorizzare sotto forma di dialogo interno “negativo”, come sappiamo tutt’altro che propulsivo.

Non sorprende quindi che l’approccio “esigente” generi ANSIETÀ e un senso generalizzato di allerta, capace di inibire la FLESSIBILITÀ COGNITIVA e STRATEGICA dell’atleta che rischierà di reiterare meccanicamente le stesse modalità di gestione degli eventi, in modo apparentemente “ostinato”, senza più riuscire a dialogare con se stesso e con quello che lo circonda.

Quando invece allenatore e atleta condividono una prospettiva centrata sull’ECCELLENZA (capace cioè di riconoscere e valorizzare reciprocamente “ciò che è stato fatto” attraverso l’impegno congiunto di ognuno), riescono a fronteggiare non solo i successi, ma anche gli insuccessi, poiché orientano sapientemente la propria attenzione alla ricerca di “ciò che ha funzionato” ; si “allenano” a farlo anche in allenamenti e gare difficili, in cui l’atleta si è confrontato con sfide impreviste, carichi di lavoro intensi o situazioni emozionali bloccanti .

Un allineamento allenatore-atleta sul principio di “eccellenza”, potenzia la perseveranza, nutre la fiducia reciproca, riduce l’ansia e favorisce la sintonizzazione in ogni situazione, promuovendo la disponibilità ad apprendere dall’esperienza in modo costruttivo e creativo.

L’approccio ECCELLENTE favorisce un’attenta analisi dei momenti agonistici salienti, potenzia l’utilizzo di FEEDBACK VERBALI specifici e non giudicanti, genera FIDUCIA interna ed esterna e PROTEGGE dalla caduta motivazionale, proprio perché è capace di riconoscere incondizionatamente l’impegno.

Nell’AGONISMO maturo, Individuare i propri PRINCIPI GUIDA, è una pratica di consapevolezza che allenatori e atleti non dovrebbero delegare, a meno che non decidano di concedere ad altri l’irrinunciabile esercizio della propria responsabilità formativa ed umana.

 

 

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4 MINACCE NEL RAPPORTO ALLENATORE- PSICOLOGO DELLO SPORT

L’alleanza tra le parti non è scontata, non è fisiologica e non è implicita. La fiducia va costruita, le competenze condivise. Ancora troppo spesso la psicologia dello sport fa fatica a farsi capire dagli allenatori e perde importanti opportunità per mettere a disposizione le proprie risorse nella riuscita agonistica così come nella promozione del benessere psico fisico degli atleti e dei loro staff.

  1. Una prima minaccia al raggiungimento di una solida alleanza di lavoro risiede nell’immagine che spesso lo psicologo dello sport finisce per alimentare: quella di un “esperto” che procede in modo “blindato”, quasi occulto nel lavoro con gli atleti, senza lasciare traccia di ciò che ha compreso e delle aree su cui sta lavorando, finendo per annullare qualsiasi apprendimento da parte del sistema allenatore-atleta, invece di favorire l’autonomia relazionale ed emotiva di entrambi.
  2. Molti allenatori, soprattutto quelli che non hanno mai sperimentato il lavoro “congiunto” con uno psicologo dello sport o peggio ancora, ne sono stati delusi o prevaricati professionalmente, possono esprimere notevoli resistenze alla sola idea di un futuro contatto, percependo la legittima preoccupazione per una potenziale perdita di territorio o per il timore di un giudizio eccessivamente critico sulle proprie modalità di gestione dell’atleta e della squadra.
  3. Altri allenatori invece, disposti potenzialmente a delegare “completamente” la gestione degli aspetti mentali ed emozionali allo psicologo dello sport, hanno la convinzione che, una tale misura d’urgenza, vada fatta solo quando tutte le altre strade siano già risultate infruttuose; finendo quindi per incrementare l’iniziale criticità e farla diventare, nel tempo, un cronico problema, ben più radicato di quello iniziale. A questo punto, secondo un meccanismo “tutto o nulla”, lo psicologo sportivo, investito di aspettative salvifiche e risolutorie, rischierà di vedersi attribuito il merito dell’uscita dalla crisi dell’atleta, senza invece poterlo CONDIVIDERE, legittimamente, secondo un piano tripartito: con atleta e allenatore, sin dall’inizio.
  4. Troppo spesso come Psicologi dello Sport , ci aspettiamo che gli allenatori ci diano fiducia incondizionata e si aprano al lavoro interdisciplinare senza tener conto della loro esperienza e della loro visione ; molto spesso non riusciamo a far cultura psicologica sportiva e a rendere il nostro ambito applicativo , chiaro e condiviso , divulgando e raccontando i nostri apprendimenti , invece di aspettarci un riconoscimento implicito delle nostre professionalità , che ancora una volta ,rischiamo di tener criptate nei nostri studi . Permettere in nuovi modi, agli allenatori, di FARE ESPERIENZA DI NOI E CON NOI, penso sarebbe il primo passo per far crescere LA FIDUCIA E LA COLLABORAZIONE e perché no, i risultati.

(Monica Vallarin, psicologa dello sport ed ex atleta)

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ASPETTI PSICOLOGICI DEL BAMBINO E ATTIVITÀ MOTORIA

Nello sviluppo evolutivo il bambino attraversa alcune fasi che hanno aspetti specifici, utili da considerare quando si propone un’attività motoria; possiamo considerare inizialmente  la personalità, come un insieme strutturato esito di fattori organici e fattori ambientali, strettamente connesso alla proposta educativa e allo stile educativo della componente genitori; da questo punto di vista il compito che gli adulti si trovano a fronteggiare è quello di adeguare le strutture ambientali presenti  a quelle che sono le funzioni nascenti del bambino e inoltre quello di esercitare le funzioni specifiche in momenti sensibili dello sviluppo. A tal fine è molto importante che lo stile educativo, detto anche pedagogico, (con cui il bambino viene educato e guidato nelle fasi precoci della sua vita) sia equilibrato e non abbia eccessi di stimolazione ma neanche deficitario e iper protettivo; questo ci introduce al concetto di “sviluppo variabile”, dove prendiamo in considerazione la possibilità che ci siano delle regressioni psicologiche ed emotive temporali, per affrontare alcuni compiti particolari come quello della separazione dalle figure di attaccamento primarie, quello dell’individuazione e quindi la riorganizzazione della propria personalità in un percorso di transizione evolutiva armonica.

Altro ambito sono i conflitti causati dalla rivalità fraterna che talvolta possono provocare gelosia e reazioni rabbiose o di perdita, così come la capacità di differire la soddisfazione dell’impulso e quello di fronteggiare l’ambivalenza emotiva, riuscendo regolare l’emozione o la pluralità di emozioni distinguendole. All’interno della relazione con le figure primarie di attaccamento possiamo spesso notare degli stili di iper protezione che potrebbero produrre un’insicurezza o una sensazione di inadeguatezza nel bambino, diventando quindi limitanti per le future esperienze; possiamo anche avere stili particolarmente autoritari che invece finiranno per determinare paura e forte ansietà, talvolta anche un ‘impasse a livello della crescita.

Gli adulti appartenenti alla cerchia extra familiare che hanno ruoli formativi e responsabilità pedagogica, come per esempio gli insegnanti, gli istruttori e gli allenatori, si trovano necessariamente a fronteggiare alcune caratteristiche tipiche dello sviluppo del bambino, quella per esempio della fascia da 0-2 anni: in cui assistiamo a un’indipendenza relativa del bambino e un’importanza rilevante del processo di attaccamento alle figure di riferimento (che devono necessariamente esercitare una funzione contenitiva). Questo è il periodo in cui generalmente esordisce il linguaggio prima in modo più rarefatto e sporadico e poi sempre più strutturato a seconda dello sviluppo individuale. In questa fase sono molto importanti i comportamenti e le relazioni gratificanti, accoglienti capaci di valorizzare e di proteggere il bambino nel suo percorso, anche di tipo motorio ma capaci allo stesso tempo di offrire e determinare la percezione del limite e quindi della sicurezza; questo può risultare particolarmente utile per la formazione dell’autostima e per la capacità di autoregolazione del bambino. 2-3 anni: possiamo assistere all’esordio di comportamenti di reciprocità con i coetanei o con le figure di riferimento; di solito in questo periodo il bambino manifesta i propri bisogni anche attraverso il linguaggio del corpo, in un’alternanza di sequenze comunicative significative sia verbali che non verbali. 3-4 anni di età: il bambino generalmente appare capace di anticipare emotivamente e cognitivamente gli eventi e di usare il linguaggio per comunicare, auto sostenersi, avere la direzione e mostrare l’interesse verso aspetti particolarmente piacevoli da un punto di vista motorio; la corporeità è sempre connessa agli aspetti emotivi e quindi al piacere dell’essere causa che unito al piacere del determinare alcuni effetti, produce un uso attivo  della corporeità e la costruzione progressiva di un’immagine di sé efficace e sicura, capace di fornire sicurezza e di alimentare l’autostima e la piacevolezza dell’esperienza.

6 anni di età: vediamo diminuire l’egocentrismo (quella caratteristica cognitiva talvolta limitante, grazie alla quale il bambino si sente al centro del mondo e agisce  e percepisce il mondo partendo da una prospettiva prettamente individuale e personale), diminuisce il livello di oppositività (quella tendenza ad opporsi alle indicazioni degli adulti, siano essi genitori che insegnanti o allenatori o istruttori di attività motorie); prosegue però anche una sorta di affermazione di sé ,in cui il pensiero percettivo è ancora unidirezionale, ma assistiamo a un incremento della memoria e dell’immaginazione, che unito al piacere motorio nei giochi più simbolici favorisce e la sperimentazione di capacità quali: mimare, recitare, drammatizzare, agire in fantasia, cambiare ruolo e far finta, tutte estremamente utili per familiarizzare con la dimensione simbolica dell’esperienza.

5-6 anni: assistiamo a un grande incremento delle spinte alla socialità, il bambino risulta capace di interesse e risulta più sensibile nei confronti dei bisogni dei coetanei, più empatico uscendo quindi da quell’egocentrismo che lo caratterizzava e questo aiuta enormemente lo sviluppo della socialità e favorisce i giochi più cooperativi e associativi, diminuendo i giochi maggiormente individuali (anche se tutto questo dipende dalle caratteristiche specifiche della personalità di ogni bambino)

7-11 anni: abbiamo il periodo della fanciullezza, in cui lo sviluppo motorio e la rapida crescita statura ponderale permette di attivare degli schemi motori di base e di coordinazione progressivamente più evoluti; in questo periodo talvolta il bambino può manifestare una sorta di squilibrio e disarmonia motoria e talvolta anche psicologica, che però è assolutamente fisiologica e che quindi avrà solo bisogno di tempo per potersi nuovamente ri-armonizzare, tenendo conto dei cambiamenti fisici e psicologici intervenuti .

8-9 anni: si ristabilisce l’equilibrio statura ponderale e il bambino (che a questo punto è un fanciullo) ritrova un equilibrio ottimale che può precede il momento della preadolescenza; in questo periodo sono molto indicati giochi motori di gruppo attraverso i quali si lavora sul rispetto delle regole condivise e attraverso i quali è possibile promuovere una sana sperimentazione delle proprie capacità, anche se generalmente può essere sconsigliato un agonismo sportivo troppo precoce ed intenso, soprattutto non sostenuto a livello pedagogico.

Le risposte a livello motorio diventano più programmabili e sono più flessibili e adattabile al contesto ambientale, momento per momento; in questo periodo assistiamo anche a un cambiamento cognitivo importante: il bambino diventa capace di elaborare segnali cerebrali in arrivo durante l’attività motoria e anche segnali di tipo cognitivo, attraverso funzioni di pensiero che diventano maggiormente reversibili e logiche, capaci di indurre e dedurre e scegliere nuove strategie.  In questo senso gli effetti si vedono anche sul gioco e sulla comprensione delle regole, nella scelta delle tattiche motorie, ma anche nel processo di comunicazione e relazione interpersonale; da un punto di vista psicologico ,attraverso l’attività motoria è possibile potenziare la contrattualità, la negoziazione all’interno del gruppo, l’adeguatezza alle regole generali, ma anche potenziare il livello di soddisfazione reciproca attraverso la pratica motoria condivisa oltre ad avere una valutazione più realistica della situazione in corso, con positivi effetti sulla formazione dell’autostima e l’adattamento. Da un punto di vista psico-emotivo, migliorare l’esperienza motoria e metterla al servizio di un’immagine positiva di sé, aiuta e favorisce esperienze di rispetto reciproco e di auto efficacia; infine sentendosi accettati da adulti significativi, relazionalmente competenti, verso i quali si prova stima e nei confronti dei quali si può provare identificazione positiva il benessere sociale e la fiducia verso se stessi e verso gli altri, non può che intensificarsi.

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ASPETTI INTRODUTTIVI DELLA COMUNICAZIONE

Il significato etimologico del termine comunicazione ha a che vedere con il “rivelare-essere collegato-significare-definire partecipare-avere in comune“; questo ci indica che la comunicazione è sempre presente nell’esperienza umana poiché tutto il comportamento è comunicazione; la comunicazione può essere intenzionale, quindi messa in atto volontariamente dall’emittente, ma anche inconsapevole (per esempio in silenzio e il rifiuto possono essere forme di comunicazione inconsapevole.

Poiché tutto è comunicazione, non esiste un non-comportamento; tutto è messaggio: anche non fare niente, non dire niente può essere considerato come una sorta di comunicazione, l’inattività e il silenzio sono potentissimi messaggi nel processo della comunicazione, allo stesso modo la qualità della presenza all’interno di una relazione o l’eventuale assenza all’interno di una comunicazione (inteso in senso fisico ma anche in termini disponibilità relazionale) sono forme di comunicazione molto rilevanti ;nello specifico per l’insegnante di yoga può essere molto utile tenere presente  la qualità della propria presenza (ma anche quella del possibile allievo); per esempio una presenza di  tipo, attivo, incoraggiante, supportivo oppure ansioso, passivo, svogliato o addirittura irritato sono modalità che possono essere esplorate attraverso il processo dell’ascolto (l’ascolto interno e esterno).

Il contesto è un elemento assai importante dal momento che arricchisce il senso del processo comunicativo in atto ed è utile quindi contestualizzare e valutare sempre il contesto all’interno del quale la comunicazione prende vita.

Per quanto riguarda la tipologia dei codici utilizzati dagli emittenti, possiamo dire che in genere gli adulti utilizzano codici più elaborati mentre in generale i bambini utilizzano codici più semplici; naturalmente su questi due aspetti è molto importante valutare le specificità senza generalizzare.

Un altro dei processi fondamentali della comunicazione viene definito distorsione della informazione: questa è una tendenza naturale all’interno delle comunicazioni umane e può avvenire sia attraverso una distorsione percettiva (dal momento che la percezione è assolutamente soggettiva e mai oggettiva visto che vediamo sempre con il attraverso “i nostri occhi”, facendo riferimento naturalmente alle “nostre esperienze” precedenti), ma può venire anche a livello delle informazioni umane che circolano e che sono generalmente, molto spesso ricche di  “ovvio” “implicito” “sottinteso”, che potrebbero non avere lo stesso significato per i per i soggetti all’interno della comunicazione e quindi generare distorsione o mancata comprensione reciproca.

Un altro elemento riguarda la posizione relazionale, all’interno della quale ci poniamo quando comunichiamo: possiamo essere emittenti o  riceventi attivi o passivi; quindi per esempio ricevere un’informazione è tutt’altro che un momento di puro ascolto passivo poiché intervengono numerose interferenze emotive consapevoli e inconsapevoli ,che appartengono alla nostra storia e alle nostre esperienze precedenti, ai ricordi connessi a quel contesto o ad aspetti emozionali che ci caratterizzano come persone; potremmo anche aggiungere che la tendenza che abbiamo nei confronti degli stimoli che riceviamo è quella di organizzare attraverso dei preconcetti, attraverso la nostra esperienza passata ,attraverso dei pregiudizi e quindi in questo senso l’insieme di credenze che in varia misura le persone hanno, intervengono attivamente nella comunicazione e possono pregiudicare un ascolto empatico e un ascolto più neutrale; da questo punto di vista, per l’insegnante di yoga, può essere molto utile analizzare e cercare di gestire le eventuali credenze limitanti che gli appartengono, così come riconoscere nell’allievo e nel gruppo elementi legati a convinzioni limitanti rivolte alla pratica, ma anche ad altri processi, cercando di gestirle in modo da non ostacolare l’espressione del potenziale dell’allievo nel percorso.

Nella gestione della comunicazione a livello relazionale, abbiamo tre possibili modalità per rispondere a come l’altro si pone nella relazione con noi quando comunica: (ricordiamo che quando comunichiamo, esprimiamo un “che cosa” e una “definizione di se’” e quindi il processo comunicativo assume sempre delle valenze di spessore relazionale che impattano e coinvolgono l’intera relazione tra i comunicanti). Una prima modalità di risposta alla definizione di sé che l’altro ci dà all’interno della relazione viene chiamato conferma (tradotto relazionalmente è come se noi dicessimo “capisco come ti definisci e sono d’accordo“) per quanto riguarda invece, disconferma, questa si caratterizza come un segnale assai potente in senso negativo, relazionalmente l’impatto equivale a “non esisti, per me sei invisibile, non sei degno di attenzione” e quindi è un messaggio che nega la realtà dell’emittente.

La terza forma di risposta alla definizione di sé nella comunicazione può passare attraverso il “rifiuto, che tradotto relazionalmente arriva come” esisti ma non sei come ti definisci” e quindi c’è una sorta di disallineamento e attrito rispetto alla definizione che la persona tende a dare di sé.

Per quanto riguarda i vari livelli attraverso i quali le persone comunicano, possiamo esemplificare quanto segue: gli individui comunicano su fatti esterni, comunicano su contenuti, definiscono la, definiscono se’ stessi: a tal fine può essere particolarmente protettivo per la relazione stessa, interagire partendo dalle comunicazioni sui fatti esterni, poi sui contenuti, poi sulla relazione e infine sulla definizione di se’, che le persone danno all’interno della comunicazione.

Gli assiomi della comunicazione sono da considerare come proprietà della comunicazione:

Assioma n.1: non si può non comunicare, tutto il comportamento è comunicazione, sia verbale che non verbale e para verbale (tono della voce, ritmi pause)

Assioma n 2: ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto (il che cosa) e uno di relazione (il come tra noi) e di solito la relazione sottolinea e classifica il contenuto. Ricordiamo anche che tono di voce, mimica facciale e gestualità e il tipo di contesto, rinforzano e caratterizzano la relazione attraverso una squalifica verbale espressa verso la comunicazione dell’altro o la propria di può invalidare l’intero processo comunicativo; avverbi come “banalmente”  “ovviamente” “stupidamente”, sono tutte comunicazioni tolgono valore alla comunicazione.

Assioma n 3: la natura di una relazione dipende dall’interpretazione reciproca delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti; ciò significa che ognuno interpreta la comunicazione altrui e questo naturalmente condiziona il modo reciproco di essere, di percepirsi e proporsi all’interno della relazione stessa.

Assioma n 4: la comunicazione umana è sia numerica che analogica: numerica è riferito allo scambio di informazioni per trasmettere conoscenza e quindi indica il contenuto verbale, analogica si riferisce invece al comportamento non verbale e quindi la postura i gesti, la mimica e anche il para verbale (la voce, le inflessioni, la cadenza, il ritmo).

Assioma n 5: tutti gli scambi comunicativi sono simmetrici o complementari, negli scambi simmetrici non ci sono bisogni opposti e ci si misura con l’altro sullo stesso piano e quindi è una modalità di tipo vagamente competitivo, mentre nello scambio complementare c’è una persona in posizione superiore e un’altra in una posizione inferiore (relazionalmente), ma le due, comunicando soddisfano reciprocamente i propri bisogni.

Monica Vallarin, Psicologa dello Sport e coach certificata

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GESTIRE LE EMOZIONI PER REGOLARE L’ENERGIA

 

Carissimi, negli ultimi mesi della mia attività professionale estiva ho avuto l’opportunità di lavorare con giovani atleti che stavano affrontando, senza esserselo detto, lo stesso problema emotivo: la paura di non avere l’energia sufficiente per terminare la gara (di solito la gara più ambita).

Lo scritto che segue vuole condividere alcune riflessioni sul tema delle grandi paure nello sport, evidenziando le connessioni tra aspetti emotivi, mentali e il rendimento in gara.

Ad una prima analisi sembrerebbe trattarsi di un semplice aspetto energetico, migliorabile se gestito in maniera più strategica e con una accurata attenzione ad aspetti quali: carichi di lavoro adeguati, alimentazione, idratazione, preparazione atletica.

Dopo un’attenta analisi delle componenti psico-emotive che caratterizzano la percezione dell’atleta, emerge invece (ad un livello inizialmente meno consapevole), una forte preoccupazione emotiva caratterizzata da una bassa sensazione di efficacia personale (un insieme di pensieri e convinzioni che, prima e durante la performance, generano nella mente dell’atleta una sorta di “previsione” sulla propria  “debole” riuscita ) e uno stato di ansia anticipatoria rispetto alle possibili conseguenze di una tale eventualità  .

Nella mente e nel cuore degli atleti le peggiori minacce sono: doversi fermare, sentirsi fisicamente male, essere giudicati dei “perdenti” incapaci di reagire e per questo non degni di fiducia e di stima da parte delle figure importanti (allenatori, genitori, compagni), non veder riconosciuto il proprio impegno a prescindere dal risultato.

Di fatto la grande attivazione psico fisica che li caratterizza tende a facilitare il verificarsi della situazione tanto temuta: gli atleti consumano quantità notevoli di energia ancor prima della gara (ma potremmo anche dire di qualsiasi altro tipo di “performance” non necessariamente sportiva), finendo per essere esausti e svuotati ben prima della partenza.

La loro mente è spesso satura di pensieri ricorrenti di stampo negativo (previsioni negative o catastrofiche) con i quali tentano invano di controllare la situazione emotiva interna, cercando di ridurre il livello di incertezza “percepita” rispetto al risultato, confusi emotivamente e mentalmente rispetto all’obiettivo sul quale portare la propria attenzione e al servizio del quale vorrebbero dispiegare le proprie energie residue. Frequentemente purtroppo  ciò che accade in gara tende a confermare la peggiore profezia che tende inevitabilmente ad autoavverarsi :l’atleta sembra non disporre di energia sufficiente per affrontare e gestire al meglio quella gara” e questo finirà per alimentare le invisibili  convinzioni negative limitanti alle quali  troppo spesso gli atleti finiscono per credere (“ non ho talento, questa gara e’ fuori portata per me , non mi sono allenato abbastanza ,non ho la testa vincente , non era ancora il momento per farla……etc).

Nel lavoro di coaching sportivo cerco quindi di costruire insieme agli atleti piani d’azione strategici e personalizzati, capaci di favorire esperienze emozionali  correttive calibrate e sostenibili che , piano piano, permettano all’atleta di ristrutturare le proprie convinzioni  negative, favorendo una maggiore disponibilità a sperimentare “nuovi assetti tattici” di gara e a gestire attivamente le emozioni che precedentemente richiedevano un grande dispendio energetico (capace di generare uno svantaggio prestazionale notevole), fino ad arrivare a ripristinare la fiducia interna .

Gli inglesi dicono “non mettere mai tutte le tue uova nello stesso paniere”: un atleta più aperto a sperimentarsi in gara non è solo un atleta più flessibile e con una piu’ ampia gamma di opzioni di riuscita, ma necessariamente un atleta piu’ capace di orientare la proprie energie psico-fisiche verso obiettivi sentiti come rilevanti e sostenibili e quindi un atleta piu’ libero e soddisfatto.

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IL NUOTO COME CATALIZZATORE

(Scritto da Monica Vallarin a commento dell’intervista a Michele Garufi, pubblicata in TRIBUTE SPACE)

Ci sono reazioni che hanno bisogno di tempo per esprimere al meglio il loro potenziale, ci sono persone che possiedono potenzialità inesauribili e ci sono discipline sportive che, anche quando hai smesso di praticarle, continuano a lavorare per te. Il nuoto agonistico di Michele Garufi è stato proprio questo: un potente catalizzatore di reazioni connesse allo sviluppo personale e professionale di questo importante dorsista degli anni 70, ora affermato Imprenditore in ambito Farmaceutico. Nel suo narrarsi, troviamo il senso profondo dell’IMPEGNO agonistico: dalle SFIDE agli apprendimenti dall’esperienza, passando dalla DELUSIONE alla capacità di “andare oltre”, trasformando le difficoltà in nuove OPPORTUNITÀ’ di riuscita.

Quando Michele racconta i MOMENTI APICALI  del proprio percorso natatorio di “PROBABILE OLIMPICO”, ci rivela tutta l’intensità delle ASPETTATIVE che ruotano attorno al SOGNO olimpico, fino a rivelarci la pericolosità di quei momenti di SELEZIONE agonistica, in cui in pochi e brevissimi istanti ci si gioca l’impegno e la fatica di mesi , talvolta di anni ; attimi in cui, in una sorta di moviola emozionale, puoi vedere il tuo OBIETTIVO divergere vorticosamente da te, lasciandoti nel vuoto, attonito e quasi privo di prospettiva temporale .

Perché è così che ci si sente dopo aver MANCATO un grande obiettivo: prosciugati di energia, privi di direzione, quasi estranei a se stessi e soprattutto, spesso, non ci si perdona.

Michele però, nella sua vita post-agonistica, sembra aver definito un punto cruciale nella propria “AGENDA EMOTIVA”: riconnettersi con quello che aveva percepito come “l’errore” responsabile della mancata convocazione olimpica; ed stato grazie ad un forte senso di RESPONSABILITÀ (inteso nel suo significato etimologico di “essere abile-a-rispondere”), che Michele ha potuto “rilanciare” tutto se stesso, ancora una volta, nella propria dimensione professionale : con l’impegno, la tenacia e la competitività che lo caratterizzano. Lo ha fatto esponendosi in prima persona, assumendosene i rischi, in solitudine suo malgrado, da buon nuotatore abituato a fare i bilanci con se stesso prima ancora che con gli altri.

Ma come ben sanno i nuotatori che hanno fatto l’esperienza “da vicino”, il nuoto avvicina e l’acqua unisce, in quella magica comunione d’anime che resta integra e v

itale anche dopo l’evento critico dell’interruzione, la stessa che ha permesso a Michele di amare la propria famiglia, la società sportiva dei propri figli e gli amici ex-nuotatori, in una sorta di “affinità affettiva” capace di contenere tutte le sue peculiarità: quella di padre, di dirigente-imprenditore e quelle di uomo.

Sport e crescita esistenziale, in casi come questi, sono meravigliosamente inscindibili e le nuove mete raggiunte vanno ben oltre tutti gli obiettivi mancati.

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